Confessione Filosofica

(Pensieri in fieri in giorni non facili)

 

Ho aspettato e soprattutto ho molto temuto questo momento: ossia il momento in cui mi sarei trovata, senza più alibi, davanti ad un computer per cominciare a scrivere.

Momento terribile!

E sì che godrei di tutte le condizioni più favorevoli: il completo isolamento garantitomi dalla mia avita catapecchia sugli Appennini e, di conseguenza, il più totale silenzio.

Il piacevole tepore d’un camino a un metro e mezzo da me, che mi scalda e mi rallegra con la sua fiamma.

E qui il mio pensiero va evocando un famoso filosofo, amante del bel calduccio e che la sorte crudele fece morire di polmonite contratta nei rigori nordici, in un gelido inverno scandinavo.

Sto alludendo a Cartesio, che tanto amava starsene in una stanza opportunamente riscaldata e possibilmente indugiare il più possibile tra le coltri e a cui, invece, la sua regale ospite, la volitiva regina Cristina di Svezia, imponeva levatacce, nonché camminate forzate, per discutere di filosofia, ammesso e non concesso che vi fosse davvero interessata.

Stando così le cose, sono solita interpretare le varie pensate di Cartesio come pesantemente condizionate da questa sua preferenza termica.

Perché cos’è in fondo il cogito se non un trovare un confortevole rifugio, chiudendo fuori le tempeste della follia e soprattutto gli insidiosi turbini dell’immaginazione?

Un’immaginazione che lo fa dubitare di tutto e che, nondimeno, gli è indispensabile per pensare, ma di cui Cartesio ha una paura matta. Infatti, Cartesio imputa all’immaginazione i suoi dubbi iperbolici, quelli che gli procurano incubi vertiginosi. Cartesio, infatti, ha il terrore di venire risucchiato in abissi apparentemente senza fondo ma che finirebbero per portarlo allo scoperto.

No, no, molto meglio per lui, ma per quasi tutti, anche per quelli che filosofi non sono, ancorarsi a qualcosa di solido e rassicurante persino a costo di doverselo inventare e giustificare nelle maniere più ingiustificabili.

Tipo, l’idea innata di Dio o il lumen naturale, che, dopo la tabula rasa messa in atto dal cogito, non si riesce mai a capire da dove piovano.

Oddio, forse si capisce benissimo da dove nascano: il secondo dalla sua educazione scolastica e la prima dal terrore di essere tacciato di eresia e poi finire barbecue come il povero Giordano Bruno.   

Ma basta così: non voglio tediarvi troppo con le mie deformazioni professionali di filosofa, che oltre tutto, essendo io da vario tempo in pensione, sono il sintomo che della filosofia, al di là del mestiere che ho esercitato, non mi libererò mai più.

Un vizio inveterato?

Probabilmente.

Se me la tirassi, direi che il mio è uno stile di vita… beh sì, se poi, subito dopo, non mi scappasse da ridere. Perché, per dirla tutta, anche certe espressioni, proprio quelle cui siamo più convintamente affezionati, finiscono per suonarci un po’ stonate e soprattutto sussiegose.

E questo succede più facilmente se si stanno per compiere settant’anni e, se non succede, se cioè non troviamo almeno un po’ ridicole le formule che più ci sono care, a mio modesto avviso, vuol dire che si è invecchiati senza imparare un bel nulla.

A questo punto, un’opportunità mi si offrirebbe per superare il famigerato “blocco di chi scrive”: quella di blaterare sulla vecchiaia, su come questa maledetta vessi il corpo… no grazie!

D’altra parte, è innegabile che perdere le forze con l’età sia una grandissima seccatura.

Il corpo, il corpo e ancora il corpo: accidenti non si parla d’altro dovunque ci si volti!

E riappropriamoci del nostro corpo! E bisogna ascoltare il nostro corpo! E giù con un nugolo di sviolinate New-Age. Ivi compreso lo spazio sempre più grande concesso all’arte culinaria.

<Preferisco sorvolare sulla terribile tirannia esercitata sui pigri irrisolti, compresa la sottoscritta, da quell’applicazione infernale di nome conta-passi…>.

Allora, mi viene in mente quello che sosteneva a proposito del corpo un altro grande filosofo – si è vero, sono proprio fissata coi filosofi – che mi è molto più congegnale di Cartesio, ovvero Nietzsche.

Ovviamente, tutto questo strombazzato “ritorno al corpo”, tutti questi programmi di benessere non erano minimamente di moda ai suoi tempi e, quindi, sarebbe da idioti imputargli di dire cose trite e ritrite.

Anzi, all’inizio di Ecce homo, dove parlare di dietetica vien presentato come più salutare che discettare sull’immortalità dell’anima, quello che Nietzsche sostiene suona, per i suoi tempi, come una gran novità.

Però, secondo me, se Nietzsche fosse vissuto adesso, si sarebbe irritato di questo andazzo “filocorporeo” di bassa lega e lo avrebbe bollato come una sorta di “canzone da organetto”.

Ora, dei tanti brani che Nietzsche dedica al corpo, uno in particolare mi ha sempre colpito: quello in cui lui si chiede se la filosofia tutta non sia stata un “fraintendimento del corpo”. Ovvero, se dietro “le più ardite stravaganze della metafisica” non si celino sempre “i sintomi di determinati corpi”.

E qui non si può che dare ragione a Nietzsche, specie se si ripensa a quello che vi ho appena raccontato del povero Cartesio, il quale scrive, per l’appunto, le sue Meditazioni metafisiche confortato dal calore del fuoco. Perché proprio lui che fa continuamente mostra di detestare la res extensa, alias il corpo, lui che abborre i sensi e quello che ne deriva, compresa l’immaginazione, può, come s’è visto, occuparsi di filosofia solo mettendo il suo cagionevole corpicciuolo ben al riparo.

Per fornirvi un ultimo tocco pittoresco, restando fedele a quello che leggo nelle Meditazioni, sappiate che Cartesio si descrive abbigliato d’una vestaglia invernale. E giuro che non mi sto inventando proprio nulla!

Sì, sì i conti tornano, sicuramente almeno per Cartesio.

Ma non per la sottoscritta.

Il fatto è che, dopo quello che mi sta capitando ormai da troppo tempo, sono giunta alla conclusione che per me è vero l’esatto contrario di quello che sostiene Nietzsche. Ovvero, mi viene il sospetto che sia giusto il mio corpo a fraintendere clamorosamente il mio dedicarmi alla filosofia.

Prima di proseguire, bisogna però che ci capiamo: quando parlo di “filosofia” non intendo solo stare tutto il giorno seduta col naso appiccicato ad un libro: per me anche andare in Grecia con l’Odissea nello zaino è far filosofia. E ancora è filosofia percorrere il Cammino di Santiago.

E persino visitare un’isola delle Canarie come Lanzarote si è rivelata per me un’esperienza altamente filosofica: perché là, invece che andare a segregarmi in uno dei tanti squallidi lager per turisti, ho potuto innamorarmi di un architetto straordinario (César Manrique, 1919-1992), che ha fatto andare a carte quarantotto ogni mio dogma sul rapporto arte e natura.

Per capirci, la pensavo come Baudelaire e Oscar Wilde, ossia vedevo la natura e l’arte in aperto contrasto ed ero per una superiorità netta della seconda sulla prima.

Per la cronaca, l’Estetica è da sempre la prospettiva della filosofia che più mi affascina.

Ma che cosa c’entra il corpo?

Beh, il mio caro corpo, da vero birbone, mi sta giocando un tiro mancino dietro l’altro.

Vi faccio degli esempi: sto per intraprendere un viaggio che ho vagheggiato per mesi, oppure più semplicemente, sto per ritirarmi in un luogo appartato per poter leggere, studiare, e talora, scrivere in santa pace e il corpo mi mette immancabilmente i bastoni tra le ruote.

E, nonostante usi ogni prudenza preventiva, o mi spunta qualche inaspettato acciacco guasta-feste o, peggio, faccio un volo e finisco – chessò – con un braccio al collo.

(Tra parentesi, poi io parto in ogni caso, anche se squassata dalla tosse e con varie fasciature, sia chiaro).

Eh no, per favore, non mi si venga a fare delle analisi psicologiche da quattro soldi, decretando che non è vero che io desideri veramente viaggiare e che desideri stare da sola, perché ne ho, invece, una grande paura.

Balle! Balle! Balle!

Viaggiare, a patto di farlo il meno possibile da turista, mi garba parecchio e della beata solitudo sono innamorata persa.

Perché allora il mio corpo non collabora? Perché mi rema contro?

Portate pazienza che cerco di arrivarci.

 

Ne discutevo giorni fa, davanti ad un buon bicchiere, con un mio amico psicanalista, gay militante, che era rimasto piuttosto sconcertato da una mia uscita: ossia che, per me, il sesso era decisamente sopravvalutato.

Ora, siccome lui sapeva che ho letto Freud fin dall’adolescenza e, inoltre, che ho sempre partecipato alle lotte LGBT e, quando non vi ho partecipato in prima persona, le ho sempre sostenute discutendo animatamente con i bacchettoni omofobi, non poteva certo darmi della repressa o della reazionaria.

Quello che gli obiettavo era che non mi convinceva per nulla che una persona fosse caratterizzata dalle sue preferenze sessuali.

(Vabbè, lo so che, per non fare uno sfregio al linguaggio della militanza gay, si dovrebbe dire “orientamenti”, ma mi sarei anche stufata che mi s’imponga ogni singola espressione: per me “preferenza” non ha nulla di scorretto e mi si attaglia meglio di “orientamento”. Insomma, il fatto di orientarsi è un’espressione che non mi garba perché allude a un muoversi in una determinata direzione mentre io sono per un sentire mobile e plurale).

E sapete perché? Perché questo mi puzzava di amore per l’identità. E se c’è una cosa di cui, specie ultimamente, diffido su tutta la linea è il trincerarsi dietro ad un’identità.

Vi dirò di più: appena sento parlare d’identità mi viene un attacco allergico.

Eh sì, perché sono perfettamente d’accordo con quello che fa intendere Nietzsche in Ecce homo, ossia che ogni identità non ha alcuna radice “anagrafica” o biologica bensì esclusivamente immaginaria con cui giocare per costruirsi una genealogia, che, ripeto, si sa comunque immaginaria.

Ma quanti sono quelli che si prendono la briga di capire Nietzsche?

Beh, direi pochini.

 

Apro una parentesi.

E cercherò che non sia uno sfogo.

Almeno ci provo.

Non voglio nemmeno perdere tempo a scrivere quali siano le fazioni politiche che puntano tutto sull’identità – ovviamente non certo quella alla maniera di Ecce homo – e nemmeno spendere una parola per i non-pensanti che ci cascano e le sostengono.

Il cui nome è legione.

“Bella maniera sprezzante e intollerante di esprimerti! Allora tu ti senti superiore alla maggioranza? Allora disprezzi il “popolo”? Allora fai parte di una “élite”?”

Beh, sono semplicemente “aristocratica”! E non nel senso che reputi l’aristocrazia una classe sociale, ma piuttosto perché penso che sia “aristocratico” chi ama la cultura. E la può amare sia chi la coltiva, sia chi, qualora ne sia disgraziatamente sprovvisto, la desideri.

La vedo così.

Per cui, a mio modesto avviso, può benissimo essere “plebeo” anche un professore universitario che, sotto sotto, non ama la cultura, né tantomeno la vive, ma, nella maggior parte dei casi, se ne serve solo per i suoi squallidi giochetti di potere.

Ma basta così.

Stop!

Torniamo alla discussione col mio amico gay, che diceva che il sesso era importante perché attraverso di esso parla il corpo.

E io gli obiettavo che non mi interessava sapere con chi uno (o una) andasse a letto, o con chi sognasse di andarci, ma piuttosto mi interessava sapere se leggesse o no.

Al che, questo mio amico ha detto che non poteva credere che io fossi platonica, o cartesiana, ossia che disprezzassi il corpo, visto che ho sempre detto e scritto peste e corna di Platone e che, grazie al corpo, si potevano godere, oltre al sesso, molti altri piaceri, come bere vini raffinati, o vedere quadri stupendi, o ascoltare bei concerti o fare soddisfacenti camminate.

D’accordissimo, ma possiamo goderne appieno perché c’è di mezzo la cultura, avevo obiettato.

E qui, ci siamo arenati perché non mi andava per niente sostenere che la cultura fosse qualcosa di “spirituale”, tanto più che la parola “spirituale” non l’ho mai usata, né ha mai fatto parte della mia visione del mondo. E comunque non era certo perché mi sentivo “spiritualista” che ce l’avevo col corpo.

Allora gli narrai di tutte le imboscate – ve le ho appena raccontate – che mi aveva teso il corpo, remandomi sempre contro.

Ma più la discussione andava avanti, più non ne venivamo fuori e, in questi casi, quando finisco in un vicolo cieco, non mi resta che una risorsa: ricorrere ai miei amati Greci.

Insomma, cerco una soluzione che soluzione non è, anche perché mi rendo benissimo conto che i Greci sono assai lontani da noi e che giungono sino a noi come la luce di stelle ormai spente.

Però – poco da fare – è sempre a loro che chiedo lumi, quando sono in una belle impasse.

Sicché l’unica spiegazione che mi posso dare è quella che Erodoto chiamava lo phthónos theôn, in parole povere e miseramente contemporanee: l’invidia degli dei.

Ora, che io abbia una sconfinata ammirazione per Erodoto, già l’ho raccontato.

Il fatto è che reputo Erodoto non solo uno storico fascinoso, ma anche un signor filosofo, che nessuno ha mai riconosciuto come tale. Un Greco che ha saputo indagare con estrema lucidità sugli scacchi che l’esistenza ci riserva. E su come questi siano inspiegabili.

Anzi, no, non inspiegabili, diciamo piuttosto inevitabili, perché una spiegazione lui la fornisce eccome, ed è, per l’appunto, l’invidia degli dei.

Noi, che ormai ci troviamo lontani – è il caso di dirlo – anni luce dai Greci, sia che ci sentiamo credenti o atei o agnostici, siamo ormai irrimediabilmente influenzati da una visione post-cristiana e, perciò, concepiamo a stento una divinità che non sia anche buona. Non così i Greci, soprattutto quelli più antichi, in primis Erodoto.

Certo concepire la divinità come buona è molto più rassicurante che vederci come il bersaglio, o il trastullo, di dei che s’intromettono nella nostra vita e spesso non per usarci delle cortesie.

Nemmeno nel primo caso, però, tutti i conti tornano tranquillamente. Voglio dire che nemmeno la concezione cristiana, che pure sembra offrire un pacificante rifugio, è priva di falle.

Prima crepa fra tutte è espressa nella domanda che assillava Agostino: unde malum?

Ossia: il male da dove proviene?

Ebbene, la domanda che Agostino si pone, anche prima di convertirsi, e poi ne scrive solo dopo un bel pezzo che si è convertito, nasce dall’amarezza che lui provava nel vedere che voleva il male. Agostino era, insomma, turbato dalla smania di peccare che caratterizzava l’uomo.

Voluntas che gli restava inspiegabile, al pari dell’esistenza di un angelo malvagio, tanto più inspiegabile se si considera il Creatore buono.

E qui vi risparmio le soluzioni che vengono approntate, ad esempio, nelle Confessioni, tipo che il male non è una sostanza eccetera, eccetera, eccetera.

Di teologia ne so qualcosa, ma non è una buona ragione perché vi annoi.

Anche perché, io pur percependo un’estrema lontananza dai Greci, mi sento paradossalmente più vicina al loro modo di sentire che a quello di Agostino. Dato che, per i Greci il male non era il peccato ma più semplicemente le disgrazie che ci capitano e che rendono infelice l’esistenza.

E di queste disgrazie, dicevamo, secondo i Greci arcaici erano responsabili gli dei.

Non a caso, molti degli interrogativi che i Greci si ponevano, anche in epoche meno antiche, ruotano spesso intorno al travagliato rapporto tra gli uomini e gli dei: o gli dei sono maledettamente impiccioni, come nei poemi omerici, o si trova da ridire circa i loro interventi, come avviene nelle tragedie, o si sostiene che le loro intromissioni sono menzogne dei poeti, come fa Platone o, infine, si proclama che gli dei non si occupano affatto degli uomini, come propone Epicuro.

Ho fatto solo qualche esempio e in maniera molto sommaria. E ne chiedo venia.

Ma torniamo ad Erodoto.

Ora, siccome non voglio stare a ripetere a quello che ho sviscerato con dovizia in A scuola da Erodoto (che trovate in questo sito e che v’invito caldamente a leggere), mi limito ad un breve schizzo.

Secondo Erodoto, la divinità è invidiosa di tutti coloro che in qualche modo grandeggiano; e questo perché non tollera che i mortali competano con gli immortali. Perciò, se un uomo si sente forte come un dio, commette un atto di tracotanza (la famosa hýbris), che subito gli dei colpiscono.

Tuttavia non basta stare attenti a volare basso per non attirarsi lo phthónos theôn, perché gli dei subdolamente fan di tutto per far tacere la prudenza di colui che, dinanzi ad un’azione magnifica, esiterebbe, spronandolo ad osare.

E, quando l’audacia prevale e, allora, un uomo tenta grandi imprese, quasi sentendosi invincibile, ecco che la saetta divina lo abbatte e lo stronca di brutto.

Quanto a me, ci ho rimuginato a lungo senza riuscire a capire dove possa annidarsi la mia hýbris.

Per cui quello che state per leggere prendetelo come un delirio.

Non mi pare proprio di avere manie di grandezza ma forse sono arrogante nell’esser indifferente a tutto quello che i più, in genere, reputano importante: la prosperità economica, gli amori corrisposti, la coppia, l’istinto di riprodursi – caro Schopenhauer, cari Gnostici, quanto m’avete influenzato! – la famiglia… certo, amo molto i miei nipoti – ne ho anche di non biologici – ma questa è una storia a parte…

In parole povere, forse la mia hýbris fa tutt’uno con certe mie preferenze filosofiche, che poi non ho potuto fare a meno di vivere… ma basta così!  

Accidenti! M’ero dimenticata di dirvi una cosa assai importante: gli dei colpiscono i mortali troppo felici e troppo fortunati.

E qui mi vien spontaneo pormi una domanda che anche voi vi porreste: ma io sono felice?

Beh, faccio di tutto per esserlo, quello sì, ossia, per godere delle gioie dell’esistenza, anche quelle più piccine, cercando solo quello che mi piace e procurando di non indugiare su quello che mi disgusta.

Quanto alla fortuna, non ci credo più di tanto e, sotto questo aspetto, tendo a ragionare non come i Greci arcaici, ma piuttosto come quelli più tardi: come gli Stoici, per capirci. Ossia quelli che cercavano in ogni modo di far fronte ai rovesci della sorte.

A questo punto, sorge però un problema: le mie tendenze stoiche parrebbero non conciliabili col fascino su di me esercitato da Erodoto e, in particolare, da quello che lui pensa sull’invidia degli dei.

Ma proprio qui sta il bello: quando si amano i Greci non si ama un blocco unico e indifferenziato, bensì un mondo variegato e plurale e – badate bene – non semplicemente polifonico, ma un mondo dove, come ci ha insegnato il grande Gorgia, regna il con-possibile.

Per cui non vi è nulla da stupirsi se nel mio immaginario Erodoto convive tranquillamente, ad esempio, con Seneca e Marco Aurelio.

Insomma, possiamo benissimo pensare di essere artefici della nostra fortuna ma contemporaneamente, ogni tanto, sentirci sopraffatti da qualcosa che non riusciamo a controllare.

E l’invidia degli dei parrebbe esserne la spiegazione, per certi versi, più soddisfacente.

Tuttavia, tuttavia…

 

Tuttavia, come faccio a non parlare di quello che sta accadendo in questi giorni o, meglio, di quello che è accaduto proprio mentre ero sul più bello di questa mia “confessione filosofica”?

Ebbene, quasi tutto il pianeta è più o meno invaso da un evento catastrofico imprevisto: il diffondersi inesorabile del Coronavirus.

In questo caso, non vanno in fumo solo i progetti – e financo la vita stessa – di un singolo individuo, ma anche quelli di milioni e milioni di persone.

Questa è la ragione per cui forse farei bene a lasciar perdere quello che stavo per scrivere, invece no: vorrei finire lo stesso, pur consapevole che le mie disavventure somatico-filosofiche son minima cosa a fronte di una sciagura cosmica.

Anzi, vi dirò di più: voglio finire di scrivere lo stesso proprio a dispetto di tale sciagura cosmica, per non darla vinta al caos che regna sovrano, che sembra voler azzerare ogni volontà individuale, compresa quella di far filosofia.

Mi torna in mente quanto sosteneva uno scrittore, ma anche un pensatore, originale quanto radicale, su cui, in giorni ormai remoti, scrissi e sostenni la mia tesi laurea: Albert Camus.

Ebbene, Camus non tollerava la nostra condizione di esseri mortali e la denunciava come assurda, ed è proprio per quello che in varie sue opere compaiono spesso situazioni limite: quella di un condannato a morte, come ne Lo straniero, o quella di una intera città in preda ad un’epidemia, come ne La peste.

(Tra parentesi leggere, o rileggere, questo romanzo di Camus, di questi tempi, sarebbe cosa salutare). 

Ma, a ben guardare, per Camus non esistono situazioni limite perché tutti noi siamo comunque condannati a morte e saremo comunque “ammazzati” per il solo fatto di essere mortali.

Ebbene, Camus, pur coltivando una lucidità impareggiabile, non cede mai alla disperazione ed auspica una felicità estrema, nonostante un destino avverso.

E lo fa rivisitando un mito molto noto: quello di Sisifo.

Perciò ripiglio da dove m’ero interrotta: dal mio corpo “dispettoso” su cui andavo fantasticando facesse leva la mitica invidia degli dei. Laddove “dei” è l’altro nome di ciò che sfugge al nostro controllo e, in barba ad ogni pretesa di saggezza, più o meno stoica, sembra far di tutto per farci sentire infimi, insomma per schiacciarci.

Ecco perché la concezione di Erodoto, a maggior ragione nei giorni che stiamo ora vivendo, sembrava fornirmi un simulacro di risposta.

Ovvero una risposta immaginaria, non mi stanco di ripetere.

Del resto, vi sfido: mi si citi una qualsivoglia risposta che non sia immaginaria.

Anche la filosofia, che pure io amo sopra ogni altra cosa, dà solo risposte immaginarie, sia ben chiaro.

Ma, da capo, proprio adesso, rileggendo Il mito di Sisifo, che m’illudevo di sapere a memoria, e invece sempre mi sorprende, capisco che anche Camus, alla fine, proprio nelle ultimissime parole del suo pamphlet, rende omaggio all’immaginazione, che resta comunque un atto arbitrario, persino quando sembra ammantarsi di stringente necessità:

IL FAUT IMAGINER SISYPHE HEUREUX

(Bisogna immaginare Sisifo felice).

 

E, allora, concludo con uno stato d’animo ben diverso da quando ho cominciato a scrivere: non più indispettita per la fragilità del mio corpo, bensì in qualche modo alleggerita.

Alleggerita finalmente anche dalla soluzione che avevo a lungo vagheggiato: l’invidia degli dei.

Il corpo – non solo il mio! – è traditore, e allora?!

Che fare?

Cercare facili, quanto fallimentari, ripari come il povero Cartesio?

Cedere all’angoscia?

MAI!

Perché niente potrà mai impedirmi, nemmeno una terribile pandemia, d’immaginarmi e, quindi, di essere, come il Sisifo di Camus, “padrona dei miei giorni” …e poco importa se non saranno più molti.

 

Note per chiarire

Godibile è la storia, anche se alquanto romanzata, del soggiorno di Cartesio a Stoccolma culminata nella morte del filosofo l’11 febbraio 1650 (probabilmente per polmonite), raccontata da Raffaele Simone, Le passioni dell’anima, Milano, Garzanti, 2011.

Sulle vertigini indotte dal “dubbio iperbolico” in René Descartes (che io chiamo per abitudine Cartesio), si veda il finale del primo libro e l’inizio del secondo delle Meditazioni metafisiche. Sempre in questo testo, Cartesio fa capire di amare il caldo della stufa, una vestaglia bella pesante nonché il tepore delle coltri (Meditazioni, I, 9-10). Sul lumen naturale, esiste un dialogo mutilo di Cartesio, d’incerta datazione, ritrovato postumo da Leibniz: La ricerca della Verità mediante il lume naturale, a cura di Ettore Lojacono, Roma, Editori Riuniti, 2002. Nelle noiose Note del curatore, alle pp. 108-109, n. 2, trovate qualche ragguaglio su questa nozione in Cicerone (Tusculanae disputationes, III, 2, 1), in Bacone e in Charron, ma – ahimè! – non nella Scolastica. Propongo di investigare in Sant’Alberto Magno.

Nietzsche parla della filosofia come “fraintendimento del corpo” nella Prefazione del 1886, par. 2, a La Gaia scienza (mi sono attenuta alla traduzione di Ferruccio Masini, contenuta nell’edizione critica delle Opere di Nietzsche curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari). Il problema della dieta viene visto come eminentemente filosofico, in luogo di occuparsi di questioni teologiche, in Ecce homo, Perché sono così accorto, 1. Infine, di canzoni da organetto si parla in Così parlò Zarathustra, III, Il convalescente, anche se colà l’oggetto è una versione banalizzata dell’eterno ritorno, ma la metafora vale come esempio di ogni becera semplificazione.

Per l’Odissea nello zaino rimando ad un paio di miei réportages di viaggio: Verso Itaca  e Patrasso, solo andata.

Per Lanzarote guardate l’omonimo album di fotografie: Lanzarote

Ho sviscerato a lungo il tema della solitudine in Beata solitudo. (parte 1, parte 2 e parte 3)

Si tratta del mio caro amico Fabrice Bourlez, autore, tra l’altro, di Queer psychanalyse – Clinique mineure et déconstructions du genre, Paris, Editions Hermann, 2018.

La folgorante immagine della luce di stelle ormai spente mi viene dal grandissimo Pierre Klossowski (1905-2001), che così definiva i miti greci e, in particolare, quello di Diana e Atteone (nelle prime due pagine de Le bain di Diane, Pauvert, Paris, 1956). Ad esser precisi, Klossowski parla di lumière di “costellazioni spente per noi, per sempre allontanate”. Ebbene, sono immensamente grata a Klossowski per la sua opera tutta, di letteratura, di filosofia e di pittura, ma non solo: ho avuto l’incommensurabile privilegio di conoscerlo e di frequentarlo, eppure mi basterebbe anche questa sola frase, e la potenza inesauribile che ne scaturisce, per amarlo immensamente e per sempre.

Quanto all’ “invidia degli dei”, vi raccomando di leggere: A scuola da Erodoto (che fa parte di un discorso ben più ampio sull’agonalità greca), giacché qui sono costretta a trattare troppo velocemente tale delicata questione.

Alludo soprattutto a Walter Otto, Spirito classico e mondo cristiano, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1973 (ed. or. 1923): libro ormai assai annoso, ma che ci fa ancora riflettere su queste due diverse concezioni della divinità.

Per Agostino, mi limito a rimandare al libro settimo delle sue Confessioni, specie i primi dodici capitoli. E, in particolare, vi suggerisco di leggere, o rileggere, con attenzione l’abissale quinto capitolo.  Per la cronaca, Agostino aderì al Manicheismo prima di convertirsi, donde la sua estrema sensibilità al problema del male.

Se volete far conoscenza con Gorgia, eccovi la mia traduzione dell’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini e la piccola introduzione che ne ho fatto recentemente: Viatico per l’Encomio di Elena.

E, infine, non trascurate Albert Camus, Le mythe de Sisyphe, Paris, Gallimard, 1942 (edizione italiana più recente: Il mito di Sisifo, traduzione di Attilio Borelli, Milano, Bompiani, 2013). Per me, si tratta di un libro potente e intramontabile ossia di un vero e proprio classico.