10. Il “tu” di Eraclito.

Dopo che Eraclito, dicendo orgogliosamente e sconsolatamente egó, sembra escludere tutti gli altri, sembra esserci anche un’altra possibilità.

E questo nuovo scenario si apre allorquando l’Oscuro usa la seconda persona singolare.

Vediamo subito l’unico frammento in cui il “tu” emerge con bella prepotenza:

 

I confini della psykhé, mentre vai, tu non li potrai trovare, anche se percorressi tutte le strade (hod): così esteso (bathýs) è il lógos che essa possiede (45.51).

 

Vorrei puntualizzare, a scanso di equivoci, che psykhé in Eraclito non è più quello che era stata in “Omero”.

Mi spiego: leggendo i poemi omerici, non apprendiamo nulla circa le  funzioni della psykhé finché un uomo è ancora vivente, dato che essa si manifesta solo quando la “vita” (psykhé) abbandona il corpo, talora passando per la chiostra dei denti (Iliade, IX 409), o attraverso una ferita mortale (Iliade, XIV, 518-519). E ancora in “Omero” la psykhé diviene un inconsistente doppio fantasmatico del corpo: quello che hanno i miseri defunti nell’Ade (Iliade, XXIII, 100-104; Odissea, IX, 205-207).

Sicché, a voler esser pignoli, ma anche onesti, rimangono due casi di eco omeriche: uno in cui psykhé significa ancora “vita” (85.93) e un altro in cui le psykhaí che stanno nell’Ade son dotate dell’olfatto (98.114).

E ancora, psykhé non è nemmeno un’entità, superiore al corpo che trasmigri tra più corpi, come lo è nelle dottrine pitagoriche – che, intuiamo, Eraclito disdegna <§ 6> – e come lo sarà poi in Platone. Perché non è possibile, a mio avviso, parlare di nessun dualismo tra anima e corpo in Eraclito, allo stesso modo in cui non vi è trascendenza.

E lo dico con buona pace dell’interpretazione di Colli, che qui non seguo assolutamente.

Allora – accidenti! – come dobbiamo tradurre psykhé?

Semplice: non la dobbiamo tradurre e basta!

Spessissimo psykhé ha connotati “fisici”, come la secchezza (118.56: secca è la psykhé migliore, ovvero dei saggi), oppure l’umidità (77.54): umida è l’anima dell’ubriacone (117.55) o si trasforma passando ciclicamente tra i vari elementi, quali l’acqua e la terra (36.53).

Talora, invece, psykhé presenta una coloratura che potremmo definire, per approssimazione, “mentale” (107.64).

Ed è proprio questo il caso anche del sorprendente frammento in cui campeggia il “tu”, da cui eravamo partiti.

In questa sentenza vi è un andare, un percorrere un cammino (hodós) senza luoghi d’arrivo, in una landa sconfinata.

Eppure si continua ad andare.

E, proprio per questo, propongo di interpretare bathýs non come “profondo”, ovvero “abissale”, alla maniera di Diano e di Colli, bensì nel senso della vastità, dato che è uno dei significati di questo aggettivo, e dato che si parla di un andare, di un camminare, verso confini che non saranno mai trovati, mai raggiunti.

Ripensando poi a quello che abbiamo scoperto nel paragrafo precedente, possiamo arguire che, se l’“io” subisce uno scacco, anche il “tu” ne fa esperienza.

Ma cos’è mai questo “tu”?

C’è chi ritiene, come Bollack (p. 218), che sia qualcosa di dialogico, ma oltre al fatto che sarebbe anacronistico attribuire ad Eraclito quello che sarà il modo di procedere di Platone – che inscena comunque un finto dialogo –  non dobbiamo dimenticare che alla sua epoca non c’era ancora nemmeno il teatro,  almeno quello che conosciamo: quello che sarà di Eschilo, di Sofocle e di Euripide.

E allora da dove viene questo “tu”?

Sarebbe meglio dire: da dove riemerge?

Riemerge dalla poesia epica, laddove il cantore apostrofava con il “tu” non già l’eroe, bensì il suo doppio più fragile. Per capirci, non il terribile Achille ma il tenero Patroclo.

Tra i molti che vi potrei fare, mi accontento di un solo esempio. Siamo nel canto sedicesimo dell’Iliade, quello in cui Patroclo, rivestito delle armi di Achille, compie una serie di imprese prima di cadere per mano di Ettore, ma anche grazie allo sleale intervento di Apollo: “allora, o Patroclo, apparve per te la fine della vita / Febo ti venne incontro nella mischia violenta” (vv. 787-788). 

Tornando ad Eraclito, riflettiamo meglio su chi sia questo “tu”.

A mio avviso, dà voce ad una sorta di sosia, meno contundente, di quell’ “io” stolz di Eraclito, che ha rinunciato a insegnare quello che c’è da sapere sul lógos ma che, egualmente, prosegue solitario ed imperterrito nella sua ricerca.

Quell’ “io”  di Eraclito, che si immagina degli altri (dei “tu”), che lui non conosce, ma che pure, come lui, continuino a pensare.

Altrettanto solingo è anche questo “tu”, che non smette di cercare, pur sapendo che assai probabilmente non troverà quello che si aspetta, eppure non si scoraggia.

Ebbene, in quel “tu” potremmo esserci benissimo anche noi, che, leggendo venticinque secoli dopo i frammenti dell’Oscuro, nella più segreta e sconfinata delle nostre solitudini, continuiamo ad arrovellarci senza fine per cercare di percorrerli e di comprenderli.

 

11. Eraclito dallo sguardo di fuoco.

 

Ci siamo soffermati a lungo dalla parte di quello che verrà chiamato il “soggetto”, sia esso un egó o un “tu”, ma non vorrei ci dimenticassimo che Eraclito gioca sempre il suo discorso, come minimo, su due prospettive: una antropocentrica e una cosmica. E l’avevamo già imparato quando ci eravamo misurati con l’immagine del fiume.

Per molti di noi, la prospettiva cosmica è meno congeniale o più difficile da comprendere, malati come siamo di egotismo, ma, se leggessimo Eraclito sempre solo dalla parte dell’uomo, se ci soffermassimo solamente sui frammenti che parlano degli umani, gli faremmo un grandissimo torto.

Ce lo spiega Nietzsche che parla di un Eraclito dallo “sguardo di fuoco” (FETG, § 7), intento a mirare quello che l’occhio umano solitamente non vede: un nascere e un perire, nell’ardere di un fuoco cosmico che mai si spegne.

Il fuoco cosmico fu ripreso in seguito dagli Stoici, i quali sostenevano che ci fosse una conflagrazione universale ciclica, grazie alla quale il cosmo finiva periodicamente per poi rigenerarsi. Ebbene, gli studiosi sono divisi nell’attribuire o meno già ad Eraclito questa dottrina dell’incendio cosmico. Confesso che non mi appassiona prender partito in proposito; mi limito a presentarvi i frammenti in cui si parla del Fuoco, poi deciderete voi.   

Facciamo, perciò, conoscenza con pŷr, che si manifesta, tramite le sue mutazioni, come l’elemento principe:

 

Mutamenti del fuoco: dapprima mare, poi una metà del mare (diviene) terra, e una metà folgore (31a.39).

 

La vampa in cielo torna in un altro possente frammento:

 

Il fulmine tiene la barra del timone di tutte le cose (64.117).

(Letteralmente, seguendo l’esatta disposizione delle parole nell’originale greco, sarebbe più esatto tradurre: “tutte le cose governa il fulmine”).

 

Per la cronaca, Heidegger aveva fatto incidere questa sentenza, sull’architrave della porta della sua casa-capanna, nella Foresta Nera.

E, non a caso, questo filosofo fa partire un lungo seminario (Università di Freiburg, semestre invernale 1966/1967) proprio dal commentare questo frammento. Testo (quello di questo seminario) che ho letto, ora con pazienza e ora con insofferenza e che, come sempre, è riuscito a farmi sprofondare nella filosofia di Heidegger ma – ahimè! – non m’ha illuminato per nulla circa il pensiero di Eraclito.

Torniamo ai continui mutamenti del fuoco, e dal fuoco provocati, descritti da Eraclito anche grazie ad un’immagine concretissima, quella del baratto:

 

In contraccambio del fuoco (si hanno) tutte le cose e in cambio di tutte le cose il fuoco: così come in cambio dell’oro (si hanno) le merci e in cambio delle merci l’oro (90.38).

 

Questo è un tratto caratteristico e spiazzante del linguaggio di Eraclito: talora raggiunge apici che evocano una solenne sacralità oracolare e talaltra si abbassa alla quotidianità, come in quest’ultimo caso, in cui si allude ad una pratica mercantile, che probabilmente lui disprezzava.

Sta forse tentando, nonostante il suo disinganno nei confronti degli “uomini sempre ignari” (1), cui non ha senso insegnare nulla, di farsi comprendere anche da costoro?

Forse. 

Ma Eraclito è già pronto, sempre parlando di pŷr, a librarsi verso il cosmo e a sentenziare:

 

Questo kósmos – il medesimo per tutti – nessuno degli dèi, né nessuno degli uomini lo fece, ma sempre fu ed è e sarà, fuoco sempre-vivente che s’accende secondo misura e secondo misura si spegne (30.37).

 

Due puntualizzazioni importanti.

La prima: le parole che leggete tra due trattini sono da alcuni ritenute un’aggiunta di chi riporta questa sentenza (Clemente Alessandrino), mentre altri le reputano parole autentiche di Eraclito.

La seconda: “misura” è inesatto perché è al plurale (métra) e – insisto! – i plurali sono assai presenti nella scrittura di Eraclito per poi sparire quasi sempre nelle traduzioni. E qui mi autoaccuso perché non ho tradotto letteralmente: “misure”, ma solo perché suonava male.

CR (pp. 296-300) propende per l’autenticità eraclitea della precisazione “il medesimo per tutti”, però, contemporaneamente mi ingarbuglia parecchio la questione essendo convinta che kósmos non designi ancora il cosmo, come comunemente lo intendiamo, ma piuttosto “l’arrangiamento delle cose che ci circondano”.

In questa direzione va anche Colli (A 30) che rende con: “il mondo di fronte a noi”.

Non mancano poi altri illustri studiosi che intendono “il medesimo per tutti” sottintendendo: “mondi”. Ovvero: “il medesimo per tutti i mondi”.

Vi rendete conto, in che razza di pasticci si caccia un disgraziato che si misura con Eraclito?

Ma l’importante è non perdersi mai d’animo e vedere in ogni scoglio una possibilità per capire un pochino meglio l’Oscuro.

Perciò, non resta che armarsi di pazienza e cercare nel corpus eracliteo tutte le altre volte in cui compare kósmos; per fortuna pochissime: 89.9, 75.11 e sempre riferite alla metafora del sonno e della veglia – su cui torneremo <§ 15 bis>.

Vi basti, per il momento, sapere che il tema della pluralità dei mondi, che abbiamo già toccato brevemente, a proposito del “bestiario dei non-filosofi”, si ripresenterà più d’una volta.

Tornando al fr. 30, Bollack (pp. 222-224), rovesciando l’affermazione: “nessuno degli dèi e nessuno degli uomini”, deduce che né l’uomo, né gli dèi sono esseri in grado di “fabbricare mondi”. Bisogna, allora, concentrarsi sul mondo presente, frutto del “fuoco sempre vivo” e, io aggiungerei, nel ritmo del suo divampare e del suo spegnersi.

Inoltre, sempre a proposito del fuoco, vengono in evidenza le tre dimensioni temporali: “sempre fu, ed è e sarà”, ossia il passato, il presente e il futuro. Queste tre dimensioni sono una rimembranza della sapienza oracolare, così come vien descritta nell’Iliade (I, 70): la sapienza che possedeva l’indovino Calcante. Quello che c’è in più, rispetto a questo verso omerico, è l’avverbio “sempre”, ripetuto per ben due volte.

La scorciatoia sarebbe dire direttamente: “eterno” o “eternità”.

Ma Eraclito qui non lo dice e, ancora una volta, ci diffida dal forzarlo.

Chiuderò questa ignea sequenza con un non facile frammento, che mette in gioco non solo pŷr, ma anche molto di più:

 

Il divino è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame: diviene altro mutandosi allo stesso modo del fuoco, quando commisto alle spezie riceve un nome secondo il piacere di ciascuno (67.32).

 

Limitiamoci alla coda: ovvero al fatto che il nome del profumo (che esala dalle spezie profuse nei sacrifici rituali o dalla cremazione dei defunti, non so precisarvelo) implica un’attenta riflessione di Eraclito sul linguaggio.

E qui non sono per nulla d’accordo con Diano, che è convinto che il fuoco mescolato ad un aroma faccia tutt’uno con la “sostanza”, che da quell’aroma emana.

Peccato che la parola ousía (sostanza) non esista proprio nel lessico di Eraclito, infatti è un termine che sarà caro a Platone e, ancor di più, ad Aristotele.

Ergo, smettiamola con i soliti anacronismi!  

Oltre tutto, se si vuole sostenere che il nome fa tutt’uno con la cosa nominata, mi si spieghi, per favore, quel: “secondo il piacere di ciascuno”, che scatena – poco da fare! – un “relativismo” totale.

Uno squadernarsi radicale di più prospettive.

Ebbene, anche questo ha a che fare con la pluralità dei mondi…

Il che, in particolare, significa che il divino, al pari del fuoco, prende molte sembianze, perché è in continua metamorfosi.

Inoltre, come spiega egregiamente Colli (La sapienza greca, III, p. 156), qui “i nomi dipendono dai punti di vista”. Insomma, c’è in gioco il problema del linguaggio in Eraclito – che affronteremo – e, come se non bastasse, anche la grossissima questione dei contrari.

 

12. Gli amanti della guerra.

 

Sarò franca fin dall’inizio: non ho nessuna intenzione di magnificare, da una parte, pólemos (la guerra, il conflitto) e, dall’altra, enfatizzare i contrari che verrebbero poi a convergere nell’Uno, magari attraverso proprio tale conflitto.

A mio modesto avviso, non esiste in Eraclito nessuna “dottrina dei contrari” e, con grande soddisfazione, ho poi constatato che anche Bollack (pp. 221-222) è di questo stesso parere.

E lo si deduce da certe sue pagine, che definire ardue da leggere sarebbe ancora un eufemismo.

Ad ogni buon conto, Bollack ricorre, per corroborare la sua tesi, al fr. 67, dichiarando che le varie coppie (giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame) non sono conciliabili in una unità-totalità.

E, con mia grande soddisfazione, si appoggia anche al fr. 41: quello dove tutte le cose vengono governate (la solita immagine del timone) attraversando tutte le cose <§ 6>.

Ora, l’importante è che abbiate capito, una volta per tutte, che sbarazzarci dei contrari, intesi come pluralità, è impossibile e che strombazzare – a proposito del Nostro – sempre e solo  “Uno, Uno!” (lo fa spesso Diano), come una parola magica che metta fine alla pluralità, è un mezzuccio.

Consideriamo, adesso, più da vicino pólemos che abbiamo già incontrato (fr. 67), appunto, come uno degli elementi di un elenco di coppie che, intuiamo, potrebbe essere continuato indefinitamente. 

Cosa fanno, invece, quelli che io chiamo: “gli amanti di pólemos”?

E li definisco così proprio perché, trascurando la collocazione non certo centrale di pólemos nella sequela del fr. 67, giungono ad affermare che pólemos è una sorta di principio generativo.

Andiamo, allora, ad una sentenza che potremmo definire il pomo della discordia per gli interpreti di pólemos:

 

Pólemos è, da una parte, padre di tutte le cose, dall’altra, di tutte le cose è re, e gli uni li ha rivelati (deíknymi) dèi e gli altri uomini, gli uni li ha resi (poiéo) liberi e gli altri schiavi (53).

 

Al che, “gli amanti di pólemos” – tra cui spicca Martin Heidegger – sostengono che in origine, prima ancora degli dèi e degli uomini, ci sarebbe stato pólemos che, appunto, ha prodotto tutti e due. Si tratterebbe, perciò, non di una lotta umana bensì di “un conflitto originario”, che “origina i combattenti come tali” (IM, p. 72).

Per coronare la sua analisi, Heidegger parla di “ente” e di “essere”: tutti termini che – non mi stancherò mai di ripeterlo! – in Eraclito non ci sono!

E come ciliegina, Heidegger conclude che pólemos e lógos sono la stessa cosa.

Troppo facile!

Certo, c’è un altro frammento – che non esaminerò perché corrotto: fr. 80 – dove pólemos sembra possedere una delle caratteristiche del lógos, ossia “ciò che è comune” – e del lógos ci occuperemo tra pochissimo.

Vorrei chiarire che sono sempre fieramente contraria a quel meccanismo logico, estraneo ad Eraclito, che tende a leggere come interscambiabili suoi vari termini-chiave, quali il Fuoco, Pólemos, Lógos, La Cosa Saggia etc., con la scusa che tutti questi hanno caratteristiche e termini comuni, che autorizzerebbero a facili deduzioni. Col risultato che, con tale modo di ragionare sillogistico, si traggono conclusioni indebite.

Peccato che Eraclito non conosca la logica aristotelica (CR, pp. 564-565)!

E, ormai lo sapete, il mio grido resta sempre quello: “morte agli anacronismi!”.

Infatti mai e poi mai Eraclito ci autorizza a ragionare così: sono finte scorciatoie che, invece, ci portano solo lontano da lui. 

Torniamo, perciò, al fr. 53, tanto più che, oltre al fr. 67 e il fr. 80, non ce ne sono altri dove compaia pólemos.

Tanto per cominciare, i due verbi sono diversi: il primo indica un “manifestare” e il secondo un “fare”, un “rendere”, con buona pace di Diano (14) che, in tutti e due i casi, traduce: “fare”.

(Inoltre, “padre” e “re” sono messi in contrapposizione. Forse uno è un termine più benevolo, l’altro meno, ma è solo una mia ipotesi).

Lo fa notare anche CR (pp. 301-303) che invita a badare alle sfumature quando si traduce e che sposta l’attenzione altrove, ovvero sulle conseguenze della guerra. Una guerra che, a suo avviso, non ha nulla di pre-divino o pre-umano, ma è una guerra tra uomini, che finisce, come sempre, con dei vinti che vengono ridotti in schiavitù, e dei vincitori, che divengono padroni degli schiavi.

Queste erano le conseguenze delle guerre nel mondo antico, a seconda se, alla fine di un conflitto, ci si trovava tra i vinti (quelli che perdevano la loro libertà) o tra i dominatori.

Un mondo dove chiunque poteva diventare schiavo.

E che c’entrano gli dèi? Mi chiederete.

Secondo la mentalità eroica, che Eraclito non rigetta, gli uomini morti gloriosamente in guerra, si mostrano confinanti col divino (5.121).

Non dimentichiamo, inoltre, che, nel fr. 62, pólemos è visto come una delle tante metamorfosi del divino e non certo come ciò che genera il divino.

Inoltre, CR puntualizza che non è che Eraclito abbia voluto abbassare il divino, ossia il suo non è un “umanesimo”, ma piuttosto un invito rivolto all’uomo a sorpassarsi.

E non è finita: per CR (p. 308) non c’è solo la guerra a mettere in luce il divino nell’uomo, perché anche la saggezza può farlo.

Finora vi ho sempre accennato alla pluralità dei mondi, ma, a partire da questo momento, facendo tesoro delle immagini evocate nel fr. 53 e, in particolare, da quel basileús (re), incomincerò a parlare anche di “pluralità dei regni”. Perché, nel linguaggio di Eraclito, molti sono i regni: vi è un regno degli animali, uno degli uomini e quest’ultimo si scinde in regno degli uomini liberi e in regno degli schiavi (CR, p. 569).

E, quando ci saremo riscaldati i muscoli a dovere <§ 16>, potremo arrivare fino al regno più misterioso di tutti: “al regno di un bambino”, al regno di aión, celebrato nel sibillino fr. 52. 

Concludendo, potremmo dire che pólemos funge, talora, da cartina di tornasole per vedere a che regno si appartiene.

Ma vi sono anche altri reagenti che ce lo possono rivelare.

Spero, insomma, di aver ridimensionato la portata di pólemos, sottraendogli quell’indebito ruolo principe di “lotta originaria” (ursprüngliche Kampf) – e, sottolineo, Kampf – che tanto faceva brillare gli occhi ad Heidegger e, tutt’oggi, riempie di goduria i suoi grigi caudatari.

 

13. Il lógos può fare a meno di noi?

 

Prima di cominciare a parlarvi del lógos vi voglio brevemente riferire di un piccolo pólemos telefonico che ebbi giorni fa con mio fratello, quando gli comunicai il titolo di questo paragrafo, sì quello che avete appena letto.

Solo che, inizialmente, lo avevo formulato in maniera più drastica: senza punto interrogativo.

Mio fratello non è un filosofo, e ciononostante non lo collocherei nel “bestiario dei non-filosofi”: semplicemente le sue opinioni mi interessano perché rivelano un sano buon senso, ma anche certi atavici pregiudizi, di cui chi fa filosofia deve sempre tenere conto. 

Lui reagì piuttosto scandalizzato a quel: “fare a meno” e mi obiettava che il lógos si gioca nell’interazione tra gli uomini e che non ha senso parlarne come di un’entità che esiste senza interlocutori. 

Mi scaldai subito rispondendogli che lui era imbevuto di atavismi evangelici, in particolare del Vangelo di Giovanni dove il Lógos si presenta addirittura come la seconda persona della Trinità.

Nell’incipit di questo testo sacro leggiamo: En arkê ên ho lógos (“in principio era il lógos”).

Per la cronaca, quell’en arkê mima l’inizio del Genesi, dove si passa immediatamente dopo alla creazione.

Tornando al Vangelo di Giovanni, si parla di una partecipazione del lógos alla stessa creazione e in seguito del venire del lógos in mezzo agli uomini come luce che illumina ogni uomo. Ma gli uomini non lo riconobbero. E allora lógos si incarnò etc.

(Tra parentesi, senza certi Padri della Chiesa, Clemente Alessandrino in primis, potremmo benissimo scordarci molti frammenti di Eraclito e ovviamente costoro, citandolo, si rifacevano al Vangelo di Giovanni).

Vedi, si accalorava mio fratello – che, per coincidenza, si chiama Giovanni – il lógos sta in mezzo agli uomini” e qui ci impelagammo in un’acerba disputa teologica (lui è credente, ma non è un fanatico,  io sono agnostica, ma ho un debole per la Patristica) sul fatto che il Dio ebraico-cristiano avesse bisogno o meno degli uomini, questione che non mi è mai stata assolutamente chiara… ma questa è un’altra storia…

La telefonata continuò, e qui accusai mio fratello di essere influenzato non solo dal Vangelo del suo omonimo, ma anche dal mito del dia-logo, che è un caposaldo platonico. Che cosa ci sarebbe di male?”, mi rispose lui. “Beh, il fatto è che, nei dialoghi di Platone, la ricerca filosofica comune e dia-logica è tutta una finta”, gli ho risposto.

Insomma, a me stava molto più simpatico Gorgia che, almeno, giocava a carte scoperte parlando di un lógos sommamente persuasivo, cui nessuno era in grado di resistere, che poi si rivelava essere il lógos di Gorgia medesimo.

Lasciamo stare le tue fisse su Gorgia, ribatté mio fratello, spiegami piuttosto, una benedetta volta, cos’è il lógos di Eraclito.

Eh no – accidenti! – mica te lo posso spiegare in due parole: è una vita che sto cercando di capirlo pure io! Ti leggi quello che scriverò sul mio sito e poi ne parliamo!.

Perciò eccoci qua, cari lettori, mi rimbocco le maniche e tento di spiegarvelo.

       

13.bis. Il lógos, questo sconosciuto!

 

Ricomincio, allora, non dopo aver aggiunto, per prudenza, un bel punto interrogativo al titolo dello scorso paragrafo.

Userò il mio solito metodo, noioso da morire, ma sicuro: passerò in rassegna tutti i luoghi dei Frammenti in cui ci s’imbatte nel termine lógos.

Partiamo dalle occorrenze meno problematiche, ossia quelle in cui lógos significa semplicemente: “discorso”.

Eraclito, ad esempio, sostiene che: “chi è tardo di comprendonio (bláx) è solito appassionarsi ad ogni discorso” (87.58). Il sottointeso è che lo sciocco a tutti tributa la medesima ammirazione, senza saper discernere.

Non così fa lui medesimo, che pur avendo ascoltato i lógoi di tanti non ne ha mai trovato nessuno che la pensi come lui, Eraclito, a proposito della sapienza (108.80). E che cosa ne pensa? Tenete a freno la curiosità: lo scopriremo a suo tempo, alla fine del nostro viaggio.

Lógos può avere anche altri significati (CR, pp. 508-511) e uno di questi è: “misura”. Eccolo nel fr. 31 dove si parla di un espandersi della terra nel mare e viceversa secondo un medesimo “rapporto”.

Un altro significato di lógos è: “fama”, ossia un tipo di gloria cui tutti i Greci, specie quelli arcaici, tenevano sommamente e che chiamavano in genere: kléos.  

Nel fr. 39 troviamo, inoltre, un’affermazione atipica perché qui Eraclito tributa un omaggio speciale ad un suo contemporaneo. Vi ricordate di come il Nostro se la prendeva con i “mostri sacri” di ogni epoca? Omero, Esiodo, Archiloco, Pitagora, Ecateo, Senofane <§ 6>: non se ne salvava uno! Beh, uno invece fa eccezione: si tratta di Biante “che ha maggiore fama (lógos) di tutti gli altri uomini”. Al che, se ci viene la curiosità di vedere chi fosse Biante, scopriamo che era un oratore molto apprezzato e che, a differenza di Eraclito, aveva un carattere mite ed era amatissimo dai suoi concittadini.

Biante, era decisamente più accomodante del Nostro ma, nondimeno, non si faceva illusioni riguardo agli uomini; ce lo testimonia un suo motto: “La maggior parte degli uomini è malvagia”, motto che va a braccetto con una sentenza eraclitea, che già conosciamo: Hoi polloì kakoí (“i molti sono malvagi”, 104). 

Finora ci siamo solo trastullati con il lógos: ci aspettano frammenti ben più tosti, ovvero quelli che ci costringono a vederlo sotto una luce decisamente più “filosofica” e a spremerci le meningi a più non posso per tentare di capirli.

Andiamo, perciò, ad un testo che già conosciamo, il  terribile fr. 1: quello in cui Eraclito ci testimonia il suo rammarico per aver tentato di insegnare inutilmente, appunto, il lógos.

Ora, se si legge con estrema attenzione il fr. 1, si scopre che qui il lógos è visto contemporaneamente in una duplice prospettiva. La prima è quella in cui si sottolinea che il lógos esiste e che “tutte le cose nascono e divengono secondo il lógos”. La seconda riguarda gli uomini che “sono sempre ignari” che, anche se fanno esperienza del lógos, è come se non la facessero, e questo rende vano ogni sforzo pedagogico di Eraclito stesso, che ha tentato, senza riuscirvi, di svolgere un ruolo di mediazione tra questi due piani (CR, p. 502). E poi vi sono “gli altri uomini”che del lógos non hanno mai sentito parlare e che, in sostanza, vivono infischiandosene altamente.

Insomma, abbiamo contemporaneamente una prospettiva cosmica e una antropocentrica. E non è certo l’unica volta. Ricordatevi dell’immagine del fiume! Insomma, spero che ormai vi siate abituati a questo doppio binario della scrittura eraclitea.

Conoscete già anche un altro frammento in cui Eraclito, disperato per l’umana stupidità, esorta a non dar ascolto a lui bensì al lógos: fr. 50.

Tuttavia, del lógos continuiamo a saperne ancora pochino: ormai abbiamo imparato che la stragrande maggioranza degli uomini, Eraclito escluso, continuano ad ignorarlo, bisogna ora che scopriamo qualcosa di più delle sue caratteristiche.

Ecco quella più peculiare:

 

Perciò è necessario seguire ciò che è comune: sebbene il lógos sia comune, hoi polloì (ovvero “i non-filosofi”) vivono come se avessero ognuno una propria mente (phrónesis) (2.7).

 

S’impone, quindi, la “comunanza” del lógos. E qui vi risparmio tutto quello che c’imbastisce funambolicamente sopra Heidegger (IM, pp. 136-137), a mio parere, violentando e, quel che è peggio, infischiandosene del tessuto grammaticale di questo testo greco. E giorno verrà che sbugiarderò per bene la traduzione e il commento di Heidegger del fr. 2 …

Ma non occupiamoci della Foresta Nera e restiamo in Grecia. Cerchiamo, perciò, di capire in che consista questa “comunanza” del lógos. Qualcosa forse si scopre leggendo un altro frammento, dove non compare il lógos, ma quello che l’accompagna: “il pensare”:

 

Comune a tutti è tò phroneîn (113).

 

Va detto che non tutti traducono semplicemente phroneîn con “il pensare” (così traduce Diano, 10), perché phrónesis può indicare non solo genericamente “la mente” ma, in particolare, “la saggezza” (CR, p. 597). In effetti, è così, ma non esiste in italiano un vocabolo che abbia questa duplice sfumatura. Dobbiamo farcene una ragione.

L’ultima occorrenza pure la conosciamo e si tratta di quel sibilino frammento in cui già ci siamo imbattuti quando vi mostravo come Eraclito dica, e per una sola volta, “tu”.

Ve lo ripropongo:

 

I confini della psykhé, mentre vai, tu non li potrai trovare, anche se percorressi tutte le strade (hod): così esteso (bathýs) è il lógos che essa possiede (45.51).

 

Qui abbiamo un lógos che si gioca in ogni psykhé, sempre che ci si voglia mettere in cammino pur sapendo bene che si sta percorrendo una landa sconfinata. Ma chi è disposto a fare tale strada (hodós)? Non certo “gli altri uomini”, che poi sono i soliti hoi polloí.

E allora, lo capite anche voi che siamo e restiamo nella nebbia più fitta.

Ossia, siamo messi molto male se vogliamo capire in che consista questa benedetta “comunanza”. Perché, se solo Eraclito e pochissimi altri – che chiamerò: “i pochissimi del tu”- ne partecipano, che senso ha affermare che il lógos è comune appannaggio?

Io sinceramente non ne vengo a capo.

Da un lato, abbiamo Eraclito e i “pochissimi del tu” e, dall’altro, abbiamo tutti gli altri, che “vivono” (2.7) beati e ignari del lógos, non ponendosi nemmeno lontanamente questo problema.

Ma non basta: Eraclito sa che: “tutte le cose nascono e divengono secondo il lógos” (1.1). E come mai lui lo sa? Vi prego di non domandarmelo, perché lo ignoro.

Questa è la prospettiva cosmica, direte, mentre a noi interessa molto di più il lógos della psykhé. Tanto più che, pur nel suo scacco, nel suo interminabile errare, quel tu una proprietà almeno ce l’ha, visto che “possiede” pur sempre il suo lógos.

Ah sì?! Ma come fa ad essere “suo”, se la caratteristica del lógos è di essere comune?

Ci risiamo: nebbia sempre più impenetrabile.

E allora, in tale incapacità totale di venirne a capo, sento riemergere la domanda che mi era nata ideando il paragrafo precedente: il lógos può fare a meno di noi?

Balziamo, allora, grazie alla nostra phantasía, dalla parte del Lógos – Eraclito colà ci è andato, eccome! – e riformuliamo quella domanda in maniera ancora più provocatoria: siamo sicuri che al Lógos importi qualcosa di noi? Sia che ce ne viviamo beatamente ignari, come “gli altri uomini”, sia che ci mettiamo in cammino in lungo e in largo per la nostra sterminata psykhé

Beh, alla fine ho finito per convincermi che di noi, comunque viviamo, che lo conosciamo, che cerchiamo di conoscerlo e falliamo o che non lo conosciamo del tutto, al Lógos non importi proprio un bel nulla.

E voi? Che ne pensate? 

     

14. Accenni al problema del linguaggio.

 

Adesso che ci siamo un poco familiarizzati con il lógos, o almeno ci abbiamo provato e ci sembra di non aver capito granché, abbiamo bisogno di una sorta di pausa.

Perché è necessario che tenti di darvi qualche ragguaglio sul problema del linguaggio, visto che uno dei significati di lógos, dopo Eraclito, avrà a che fare con l’atto di esprimersi a parole. Penso, in particolare, all’inizio della Politica di Aristotele (1253 a 8-10), dove ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è non solo che è fatto per vivere nella pólis, ma che è parlante, in quanto dotato di lógos.

Vi ricordate di quel passo del Cratilo (402 a), dove si attribuiva ad Eraclito il detto: “Non potrai entrare due volte nello stesso fiume”? 

E vi ricordate che Cratilo, se diamo retta ad Aristotele, sosteneva che nello stesso fiume non ci potesse entrare nemmeno una volta sola?

Non temete: non vi sto riconducendo all’immagine del fiume <§ 8> perché abbiamo già dato.

Diamo solo un’occhiata al resto della testimonianza di Aristotele, dove si narra che Platone da giovane era stato amico di Cratilo, a sua volta, seguace delle dottrine eraclitee, cosicché lo stesso Platone, in qualche maniera, ne era stato influenzato (Metafisica 987 a 32-987 b).

Sempre Aristotele racconta che Cratilo, così estremista riguardo all’immersione nel fiume, lo fosse anche su altri fronti, tanto che finì per convincersi che non bisognasse neppure parlare, ma solo muovere un dito (Metafisica, 1010 a 10-15).

Della difficoltà di comunicare con i seguaci di Eraclito aveva già trattato Platone nel Teeteto (181 a), dove “gli Eraclitei” venivano designati come: hoi rhéontes (“i fluenti”).

Impossibile discutere con loro, che non stanno mai fermi, come se fossero stati punti da dei tafani (Teeteto, 179 e). Ed è noto come Socrate si autodefinisca un “tafano”, che stimola con la filosofia i suoi concittadini (Apologia 30 e).

(A raccontare le prodezze dei fluenti è Teodoro, un noto matematico, amico e maestro di Platone, se dobbiamo dar retta a Diogene Laerzio, III, 6).

Proseguiamo nella narrazione contenuta nel Teeteto (180 a-b). Se tu domandi qualcosa a qualcuno degli Eraclitei, loro lanciano come frecce formulette enigmatiche. E se cerchi che qualcuno ti dia conto di quello che ha detto, sei colpito da un altro nuovo scambio di parole. Così non ne verrai mai a capo, visto che, detestando tutto ciò che è statico, nemmeno tra di loro riescono a mettersi d’accordo.

La conseguenza è che, se tutto si muove in continuazione, ogni risposta che vien data è parimenti corretta, sia che si dica che una cosa “è così” o “non è così”.

I fluenti avrebbero, dunque, bisogno di un altro modo di parlare, di un altro linguaggio (álle phoné) e, per il momento, possono dire solo: “non è neppure così” (183 a-b).

E questo passo del Teeteto sembra fatto apposta per preparate il terreno al principio di non-contraddizione, che sarà poi la specialità di Aristotele, infatti certe righe della Metafisica (1008 a 30-34) sono pressoché identiche a quelle del Teeteto, appena citate.  

E vi avevo già detto che Aristotele rinfacciava ad Eraclito di esser sprovvisto del principio di non-contraddizione <§ 6>.

Torniamo a Platone e vediamo come il Teeteto vada in qualche modo a braccetto con il Cratilo, il dialogo dove si affronta, per l’appunto, il problema del linguaggio. 

Tuttavia, se si legge, o si rilegge, con calma tutto il dialogo dedicato, appunto, a questo amico del giovane Platone i conti con il Nostro non tornano poi tantissimo.

Anzi, non tornano proprio per niente.

Vi spiego in che senso.

Per la cronaca, ci sono inizialmente due personaggi che stanno discutendo. Uno è Cratilo che sostiene che esiste una denominazione corretta “per ciascuna delle cose che sono” e che lo è “per natura”.

Il secondo interlocutore è Ermogene, che, invece, è convinto che l’attribuire nomi avviene secondo un accordo e per convenzione.

Nella disputa s’inserisce, come terzo incomodo, Socrate che pur non sposando nessuna delle due posizioni, non ne è equidistante e forse è più vicino ad Ermogene. Socrate propone, infatti, una serie di etimologie che stabiliscono una somiglianza tra il nome e quanto viene denominato. E questo poi sconfina nella teoria delle idee, ma questa è un’altra storia…

Dico “forse” perché il dialogo lascia, alla fine, il problema irrisolto e le spericolate etimologie e le onomatopee proposte da Socrate hanno un retrogusto da presa in giro.

Inoltre, non vorrei che voi dimenticaste il ributtante paragone col fluire del catarro <§ 7>, contenuto nel finale del Cratilo, che di sicuro marca una notevole diffidenza platonica nei confronti delle dottrine eraclitee.

Tuttavia, l’opzione convenzionalista è quella che appare rifiutata con maggior decisione. 

Ora, incuriosisce che ad un seguace di Eraclito, Cratilo per l’appunto, sia assegnata una posizione antitetica al convenzionalismo linguistico.

Ma siamo proprio sicuri che Eraclito sarebbe contento che la tradizione a lui posteriore desse per scontato tale sua preferenza, seppur implicita?

Io sospetto di no.

Tuttavia, siccome ho il difetto di essere onesta, vi cito un unico frammento in cui al nome sembra corrispondere qualcosa che esiste veramente: “Non conoscerebbero il nome della giustizia, se queste cose non ci fossero” (23.103). Ma quali cose? Si possono solo fare ipotesi. Per cui mi fermo qui.

E ancora, chi è per un anti-convenzionalismo linguistico in Eraclito, fa notare che vi sono dei frammenti in cui Eraclito ci fa capire di amare i giochi di parole (25 e 114). E di giochi di parole ne fa a bizzeffe anche Socrate nel Cratilo. E li fa per dimostrare, come vi dicevo una somiglianza tra il nome e quello che vien denominato.

Non così Eraclito!

A mio modesto parere, basterebbe anche il solo frammento 48, che già conosciamo: quello “del nome dell’arco” (biós) che invece della vita (bíos) procura la morte, per farci capire che è impossibile affermare che in Eraclito vi sia una consonanza “per natura” tra ciò che è nominato e il suo nome.

Anzi, vi può essere benissimo una totale dissonanza.

Decisivo è, a mio avviso, il finale di un altro complesso frammento (67.32), che già avevamo incontrato a proposito del fuoco, un fuoco che si mescola agli aromi generando un profumo cui ciascuno dà un nome “secondo il suo gusto”.

In quel caso, si va addirittura assai al di là del convenzionalismo linguistico, perché ogni “annusante” ha una sensazione olfattiva diversa e assegna un nome diverso a quello che percepisce.

Ne deriva un prospettivismo linguistico integrale!

E, ancora una volta, dove va a finire la “comunanza” del lógos? Proprio non ve lo saprei dire!   

Bene, credo di aver abusato della vostra pazienza, sicché basta così con il problema del linguaggio nel Nostro.

 

15. I filosofi e il sonno.

 

Toglietemi una curiosità: soffrite d’insonnia? Oppure dormite come dei sassi? Fate sognacci? Dimenticate i vostri sogni?

Guardate che non sto facendo delle considerazioni spicciole sull’argomento perché ci troviamo dinnanzi ad una delle metafore più decisive della storia della filosofia.

Per darvene solo un piccolo assaggio, mi limito a fornirvi tre soli esempi.

Il primo – una volta tanto, non seguo un criterio cronologico – è forse il più famoso: un’annotazione autobiografica di Immanuel Kant (1724-1804), quando confessa – Kant si esprime proprio così – che leggere David Hume (1711-1776) lo svegliò dal “sonno dogmatico”. E qui il “sonno” viene a designare un modo di pensare che la filosofia deve superare per iniziare, in maniera critica, la propria ricerca.   

Il secondo esempio lo traggo da Platone, all’inizio del nono libro della Repubblica (571 c – 572 b), dove il sonno indica lo stato in cui anche le persone più moderate vengono smascherate come malvagi potenziali. Infatti, nei sogni di costoro si scatenano desideri terribili e selvaggi nonché turpi e sregolate visioni. E questo succede perché, prima di abbandonarsi al sonno, non hanno lasciato desta la parte migliore della loro psykhé, che è il logistikón. Si tratta della parte dotata di lógos che deve, sempre e comunque, tenere a bada le altre parti dell’anima, preda di appetiti e dell’ira. Ne deriva che, per contro, l’uomo temperante e saggio è colui che ha completa padronanza non solo della sua veglia ma anche del suo sonno.

Il terzo esempio l’ho trovato in Cartesio (1596-1650), in particolare nelle sue Meditazioni metafisiche, opera in cui si compie, dall’inizio alla fine, un grande esorcismo: quello dell’immaginazione. Cartesio, infatti, ritiene che l’immaginazione abbia a che fare con i sensi e, quindi, finisce per sbarazzarsene. Peccato, che, senza l’immaginazione, non sarebbe mai giunto a dubitare e ad affermare di essere soprattutto una res cogitans, ossia una cosa che pensa (II, 23).

Ma torniamo alle primissime, immaginifiche, pagine delle Meditazioni, dove Cartesio, per mostrare che i sensi ci possono ingannare, ricorre, in un primo momento, alle illusioni dei pazzi, i quali credono di essere dei re mentre sono dei miserabili, d’indossare vesti di porpora quando invece sono nudi, di avere una testa d’argilla o di essere delle cucurbitacee o di essere fatti di vetro. Poi Cartesio s’accorge che un simile esempio – quello della pazzia – non può essere persuasivo perché lo si accuserebbe d’essere un pazzo lui pure, visto che si rifà ai dementi per regolarsi per quello che lo riguarda.

Insomma, teme che i suoi lettori si chiamino fuori da tanta insensatezza e non lo seguano più nei suoi ragionamenti.

Allora, Cartesio aggiusta il tiro e sceglie un esempio più universale, che coinvolga tutti, e parla del sonno. Tutti, infatti, di notte dormono e si rappresentano in sogno le stesse cose che quei pazzi vedono durante la veglia. E qui Cartesio racconta un suo sogno ricorrente: ossia d’aver sognato molte volte d’essere là – intuiamo, dove sta scrivendo in quel momento – vestito in vestaglia accanto al fuoco, mentre, invece, è nudo nel suo letto. E non c’è modo di distinguere la veglia dal sonno con criteri certi.

Allora, constatando proprio questo, Cartesio vien preso da uno stupore tale che lo porta quasi a convincersi che, ancora una volta, sta sognando (I, 9-10).

Cartesio elude, momentaneamente, tale smarrimento dichiarando che una certezza resta indubitabile: “tanto che io sia desto quanto che io dorma, due più tre farà sempre cinque” (I, 12).

Ho detto, “momentaneamente”, perché anche questo baluardo, di lì a poco, crollerà, dato che entrerà in scena un “dubbio iperbolico”: quello che un “genio maligno” c’inganni su ogni fronte, per cui potrebbero essere illusioni oniriche, non solo tutte le nostre sensazioni, ma financo le stesse verità matematiche.

Il modo in cui Cartesio uscirà, o tenterà di uscire, da questa trappola senza fine dei sogni ingannatori costituisce la parte più deludente delle Meditazioni ed è veramente un’altra storia…

Perciò, fermiamoci qui: mi basta avervi dato un piccolo assaggio di come la metafora del sonno possa gonfiarsi a dismisura nel corso della storia della filosofia. 

Ma chi ha innescato per primo la problematica del sonno e della veglia?

Ecco, vedo che l’avete già indovinato… 

   

15.bis. La veglia e il sonno.

 

Ebbene, dobbiamo ad Eraclito questa attenzione privilegiata al sonno e in generale all’averlo ammantato di un’aura anti-filosofica. Quella che io chiamo – mi si perdoni il neologismo – misoipnía.

Ma siamo sicuri che solo il sonno sia l’immagine di quanto vien deprecato da Eraclito? Ossia, siamo proprio sicuri che, viceversa, l’immagine della veglia corrisponda alla “filosofia”?

Ve lo dico perché, fino ad un anno fa, quando rileggevo ancora superficialmente i Frammenti, credevo di avere le idee molto chiare sulla contrapposizione veglia-sonno, filosofia e non-filosofia, e mi ci beavo ma, come sempre, quando si sguazza nelle semplificazioni, non si fa mai nessun progresso nel cercare di capire un autore.

E vi mostrerò perché.

Ripigliamo, allora, in mano, il tremendo fr. 1 e rileggiamone solo un piccolissimo brano, che ritradurrò ora con più cura: “gli altri uomini non s’avvedono (lantháno) di tutto quello che fanno una volta svegli così come non si ricordano (epilantháno) di tutto quello che fanno quando dormono”.

Devo all’aiuto di Colli (A 9), cui mi sono in parte appoggiata, l’aver scelto questa resa, dopo averne scartate varie altre.

Innanzitutto, viene a cadere la barriera tra la veglia e il sonno e viene a cadere, appunto, per i “non-filosofi”. Costoro, che sono ignari del lógos, sia che si sveglino sia che continuino a dormire, non sanno quello che fanno e vivono immersi nell’oblio. Non si tratta semplicemente di dimenticare i propri sogni, una volta destati, perché la stessa inconsapevolezza, accompagna “gli altri uomini” anche in quella che vien comunamente chiamata “veglia”, che continua ad essere un sonno immemore.

(Tra parentesi, cercheremmo invano la parola hóneiros, ossia: “sogno”, nel lessico eracliteo).

E ora dobbiamo farci strada in mezzo ad altri testi di Eraclito sempre sulla veglia e il sonno, che sembrano suggerire tutt’altra interpretazione. 

Vi ricordate il problema della “comunanza” del lógos, che ci aveva sommerso in un mare di dubbi? Beh, questa questione irrisolta torna a galla proprio a proposito del sonno e parrebbe trovare una soluzione pacificante:

 

Per quelli che sono svegli il kósmos è uno e comune (per i dormienti ciascuno si rifugia in un kósmos proprio e privato) (89.9).

 

Vedete una parentesi perché, secondo molti interpreti, si tratterebbe di un’aggiunta di Plutarco (De superstitione, 166 c). Riguardo a questa disputa, faccio fatica a prendere partito e son dell’avviso che, se Plutarco è intervenuto, lo ha fatto tenendo presente, ad esempio, i frammenti 1 e 2, dove la “comunanza” è, appunto, in gioco.

Resta aperta, però, una questione cui sono molto affezionata, ossia quella della “pluralità dei mondi”… o dei regni.

Andiamo, perciò, a quanto trasmessoci da Marco Aurelio (IV, 46), che, chiamando in causa Eraclito, così ci ammonisce:

 

Non bisogna fare o parlare come se si stesse dormendo (73.12).  

 

E adesso capite anche voi perché, forte di queste conferme, e in particolare, proprio grazie a quest’ultima sentenza, per lungo tempo m’ero cullata nell’idea pacificante di una dicotomia netta tra veglia e sonno, filosofia e non-filosofia.

Tuttavia, il ruolo dell’imperatore-filosofo come testimone di Eraclito ingenera ulteriori problemi. CR (p. 246), ad esempio, nota che Marco Aurelio cita a memoria, visto che sono presenti termini che non appartengono all’epoca di Eraclito. Lo si vede soprattutto in un altro frammento di ardua interpretazione:

 

I dormienti sono operatori e cooperatori di ciò che accade nel kósmos (75.11).

 

Ora, per non scoraggiarci, noi poveri interpreti dell’Oscuro, dopo aver letto questa sbalorditiva affermazione, bisogna che leggiamo l’intero testo in questione di Marco Aurelio (VI, 42).

Infatti, non basta dire che certi termini (ad es. “cooperatori”) sono più tardi rispetto all’epoca di Eraclito, oppure che kósmos ha nel Nostro un significato molto più ristretto e non può indicare: “universo” – su questo preferisco sospendere il giudizio – dato che è tutta un’altra concezione che emerge rispetto ad Eraclito.

E di che si tratta?

Si tratta della visione della filosofia stoica, cui Marco Aurelio s’ispirava e che voleva vedere in Eraclito un proprio antesignano. E questo, non solo per la teoria della conflagrazione universale ciclica <§ 11>, ma soprattutto per la concezione della Provvidenza divina, che era fondamentale per gli Stoici.

E qui non posso che essere d’accordo con Nietzsche (FETG, § 7), il quale deprecava questo appiattimento finalistico che gli Stoici fanno di Eraclito.

Ve lo faccio toccare con mano.

Marco Aurelio dice che tutti, anche “gli addormentati” collaborano, a modo loro, a quello che accade nel kósmos, e così pure quelli che si lamentano sempre e mettono i bastoni tra le ruote, “perché il kósmos ha bisogno anche di gente siffatta (…) poiché chi regge tutte le cose saprà utilizzarti” (VI, 42)… notate il “tu”!…

Sempre tenendo conto che, per Marco Aurelio, chi governa tutte le cose è il lógos (IV, 46).

Capite bene, che in questa visione del mondo, “gli altri uomini” ossia “i dormienti”, trovano comunque una collocazione provvidenziale. E viene a cadere ogni nostra difficoltà circa la “comunanza” e la “privatezza” ma anche la “pluralità dei mondi” svanisce come neve al sole. 

In una visione provvidenziale, che è sempre ottimistica, tutti i conti tornano che è una meraviglia e anche gli imbecilli si rivelano indispensabili, ma siamo sicuri che Eraclito ragioni così?

Io ho miei dubbi.

Inoltre, quando cercavamo di capire la funzione del Fuoco, avevamo visto che era, appunto, qualcosa di igneo, il fulmine, a reggere il timone di tutte le cose (64). Ma più volte vi avevo messo in guardia dall’operare facili equivalenze, tipo: Fuoco=Lógos.

Tanto più che, se leggiamo con attenzione il fr. 1, scopriamo che “tutte le cose nascono e divengono secondo il lógos”. Appunto! Scusate, sarò eccessivamente pignola, ma qui si parla di nascita e di mutamento (gígnomai) e non di un governo logico di tutte le cose!

(Rileggete, per favore, il fr. 30 <§ 11> e rinfrescatevi la memoria sul kósmos e sul Fuoco).

Insomma, spero che abbiate capito che, se ci si vuole appoggiare a questi passi di Marco Aurelio, bisogna andare con i piedi di piombo.  

Siete stremati? Io pure lo sono, ma tirate un po’ il fiato, e magari concedetevi una pausa, perché stiamo per affrontare altri due frammenti che, vi giuro, farei di tutto pur di non proporveli, da quanto sono micidiali.

Però parlano del sonno e, così, non possiamo proprio dribblarli.

Ecco il primo:

 

L’uomo accende a se stesso una luce nella notte, quando i suoi occhi si spengono. Da vivo tocca il morto, quando dorme. E da sveglio è in contatto con il dormiente (26.25).

 

Calma e sangue freddo!

L’imagérie evocata è quella delle processioni notturne e rituali, in cui il fuoco viene propagato tramite contatto (háptomai qui viene a significare sia “toccare”, sia “accendere”) da una torcia all’altra, come spiega egregiamente CR (p. 237). Vi è, dunque, un gioco di parole intraducibile in italiano.

Ora, queste pratiche cultuali appartenevano ad un tipo di religiosità tradizionale, che ad Eraclito non garbava, ma che lui aveva assai presente e da cui spesso attingeva per forgiare immagini.

Dopo, averci riflettuto moltissimo, sono riuscita a capire che chi è vigilante lo è sia che sia sveglio, sia che dorma. E non sarei arrivata a questa conclusione senza il sostegno di CR (p. 241). 

Passiamo al secondo frammento, anch’esso imperniato sulla contiguità vita-morte, sonno-veglia:

 

È la morte quella che vediamo quando ci svegliamo, e tutto quello che vediamo quando dormiamo è il sonno (21.23). 

    

Tra le molte interpretazioni, opto per quella di CR (pp. 234-235): il sonno visibile agli addormentati designa quello che comunemente gli uomini chiamano: “vivere”. Perciò, quello che scopriamo nell’atto di svegliarci è una vita che è morte, sottinteso, perché senza il lógos.

Più oltre non posso spingermi.

Spero che questi due famigerati frammenti siano riusciti a farvi capire che, fossilizzandoci su una contrapposizione rigida: veglia=filosofia e sonno=non-filosofia, non saremmo andati da nessuna parte. Perché vi può essere benissimo una veglia che veglia non è, ossia una vita che vita non è. E lo si capisce dal fatto che a tutto questo s’aggiunge l’immagine della morte.

Bene, siamo oramai pronti per affrontare uno dei frammenti più belli e più inquietanti dell’Oscuro, giocato su coppie di contrari, tra cui alcuni che conosciamo da poco e altri che ora conosceremo:

 

La stessa cosa risiede in noi: il vivo e il morto, il destato e il dormiente, il giovane e il vecchio, come pezzi sulla scacchiera che vengono rovesciati (metapípto), gli uni infatti prendono il posto (metapítpto) degli altri, gli altri prendono il posto degli uni (88).

 

L’interpretazione di CR (pp. 227-228) mi ha subito colpito per l’attenzione all’attacco del frammento, che vien talora mutilato, ad esempio, in Diano (22) che comincia bruscamente: “La stessa cosa sono il vivo e il morto etc.”.

Il dubbio che la questione si presentasse più complessa me lo aveva già suggerito Colli (A 115): “E dentro di noi è presente un’unica cosa: vivente e morto etc.”.

CR chiarisce subito che non si tratta dello stesso uomo, o di una stessa anima, ma di qualcosa che mostra alternativamente la sua faccia di vita e la sua faccia di morte, la sua faccia d’infanzia e di vecchiaia. E spiega ulteriormente: il morto, l’addormentato e il vecchio non stanno ad indicare un uomo morto, un uomo addormentato, un vecchio ma la cosa presente ad un uomo morto, ad un uomo addormentato e ad un vecchio.

E, aggiungo, contemporaneamente, la cosa presente ad un vivo, ad un desto e ad un giovane.

Inoltre, verbo chiave per comprendere l’intero frammento è metapípto.

Se vi ricordate, avevamo già incontrato questo verbo nel Cratilo (440 a-b) e allora <§ 7> m’ero contentata di renderlo con un generico “cambiare”.

Qui, nel fr. 88, CR sostiene che tale verbo, che implica un rovesciamento totale, richiama un antico gioco che si svolgeva su una scacchiera, un gioco che assomiglia alla nostra dama. Abbiamo dei pedoni bianchi (che forse qui designano la vita, la veglia, la giovinezza) in lizza con dei pedoni neri (forse, la morte, il sonno, la vecchiaia) e cotali “pezzi” producono configurazioni mobili, sempre cangianti e sempre rinnovate.

Vi confesso che questa interpretazione all’inizio m’aveva lasciata smarrita, scossa, ma poi, più ci riflettevo, più m’accorgevo che era la più convincente. Soprattutto m’offriva una soluzione brillante per uscire da una vieta coincidentia oppositorum, quella che si limita a dire: il vivo, il morto, il desto, il dormiente, il giovane e il vecchio sono la stessa identica cosa. Eh no! Così finisce che non vi è nessun mobile rovesciamento.

Insomma, dobbiamo sforzarci di capire che mai la faccia di uno stato (vita, veglia, giovinezza) è quella definitiva e sempre trapassa in quell’altra faccia (morte, sonno, vecchiaia) che sembra essere semplicemente il suo contrario, ma che, invece, non è che il frutto di uno scambio di ruoli in cui il gioco ricomincia, comincia e, daccapo, ricomincia.

Ecco, siamo giunti alla fine di questa lunga e perigliosa traversata nei regni cangianti della veglia e del sonno; non volevo darvi certezze definitive ma piuttosto uno stimolo a non irrigidirci mai, specie quando si ha a che fare con le enigmatiche metafore dell’Oscuro.

(Continua la lettura)

Note

10. Anche Bruno Snell (L’uomo nella concezione di Omero, in La cultura greca cit. pp. 19-47) è del parere che bathýs non sia da intendersi nel senso nella profondità. Secondo lui, però, tale illimitatezza sarebbe qualcosa di “spirituale” che si distingue dal mondo fisico (pp. 40-41). Nonostante il mio massimo rispetto per Snell, questo dualismo mi lascia assai perplessa.

11. Non posso tacere una formidabile stroncatura della filosofia heideggeriana, fatta da un grande scrittore austriaco, proprio a partire dalla mitica Hütte (casa-capanna), dove abitò a lungo Martin Heidegger nella Foresta Nera: Thomas Bernhardt, Antichi maestri (Commedia), trad. it. di Anna Ruchat, Milano, Adelphi, 1992 (ed. or. 1985), pp. 60-65. Si tratta di pagine della satira filosofica più feroce ed esilarante che mai abbia letto e che mai leggerò: ve le consiglio caldamente!
Martin Heidegger, Eugen Fink, Eraclito, edizione italiana a cura di Adriano Ardovino, Bari, Laterza, 2019 (ed. or. 1970).

13.bis. Se volete farvi un’idea del kléos, cliccate, ancora una volta, su Le Sirene e i Lotofagi son forse parenti?
Per la cronaca, Platone, nel Protagora (342 a), annovera Biante nel suo elenco di sette filosofi che eccellevano nel comporre ottime sentenze brevi. Se volete sapere qualcosa di Biante, vi consiglio non tanto di cercare sue notizie su Google, dove scarseggiano, bensì direttamente in DL, I, 82-88. Vi assicuro che il personaggio merita.
Colli (A 103) non traduce lógos (del fr. 39) con “fama”, bensì nello stesso modo con cui lui rende sempre lógos, ossia con “espressione”, probabilmente legandolo alla valentía oratoria di Biante. Ebbene, in questo caso, la resa “espressione” ha un suo perché, ma, in tutti gli altri casi, mi lascia decisamente perplessa.
Per completare la rassegna di tutti i passi in cui compare lógos nel Frammenti, resterebbero ancora il fr. 115 e il fr. 72, ma ho omesso di analizzarli perché c’è grande discordia tra gli studiosi nel considerarli autentici.

15. Immanuel Kant, parla di risveglio dal “sonno dogmatico” nella sua Prefazione a Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, trad. it. di Pantaleo Carabellese, Introduzione di Hansmichael Honneger, Bari, Laterza, 1996 (ed. or. 1783).
Se vi venisse la curiosità di indagare più a fondo circa i miei rapporti con Cartesio e, soprattutto, di dare un’occhiata a come ragiona costui e in che situazione amasse dedicarsi alla filosofia, cliccate su: Confessione filosofica.

15.bis. Chi conosce a fondo Eraclito potrebbe obiettarmi che, se non è presente in lui un finalismo vero e proprio, tuttavia, vi si può vedere una forma aurorale di provvidenzialismo, quando parla della díke, ossia della giustizia. Si tratta di frr. 23, 28, 80, 94, che ho omesso di trattare – fatta eccezione per il fr. 23 – perché non ho mai detto di aver l’intenzione di trattare tutti i nodi problematici del Nostro, e poi perché mi pare che certi testi chiamino in gioco la questione dell’hýbris (l’oltrepassamento di un limite), e piuttosto che la prónoia, ossia un piano provvidenziale.