Un anno con Eraclito
Per mio fratello Giovanni
Premessa: Eraclito come sfida.
La primavera scorsa si era in pieno lockdown e, non facendo uso di ansiolitici, né di stupefacenti, mi rifugiai in una delle mie droghe preferite, ossia la filosofia greca antica.
In passato avevo bazzicato spesso Gorgia, il grande sofista, che amo molto, e Platone, che non amo affatto, ma che è indispensabile conoscere, e pure a menadito, se si vuol dire qualcosa di sensato riguardo alla filosofia d’ogni epoca.
Quanto al mondo greco arcaico, ormai quasi tutti conoscono la mia indomabile passione per i poemi omerici, che per me restano e resteranno una fonte inesauribile di stupore e di godimento.
Colà ormai mi sento un po’ a casa mia.
Rimaneva, nel mezzo, una terra di nessuno e, soprattutto, un autore del sesto secolo a. C. che avevo letto e riletto, rapsodicamente, per decenni ma che mi ispirava troppo timore reverenziale perché mi sfiorasse anche la più remota tentazione di scriverci mai alcunché.
Si tratta di Eraclito.
Ecco, ormai ho scritto il suo nome e tremo tutta perché non mi posso più tirare indietro e comincia la scommessa di intrattenervi su uno dei pensatori più tremendi ed enigmatici che siano mai esistiti.
Per la cronaca, già dall’Antichità lo definivano: l’Oscuro, non so se mi spiego!
Per decidermi a osare tanto, un ruolo importante lo ha giocato la mia età anagrafica: avrei compiuto 70 anni nel luglio del 2020, uno spartiacque cruciale, poco da fare!
Una scadenza che mi ha fatto esclamare: o adesso o mai più!
C’è poi stato un altro evento che mi ha deciso a non lasciare tracce solo informi della mia ricerca (ossia una cospicua ridda di schemi e di appunti): in autunno avrei dovuto, e voluto, recarmi presso l’Università di Trieste. Colà, ogni anno, tengo un breve ciclo di lezioni, che, questa volta, avevo già deciso vertessero su Eraclito. Tuttavia, il Covid ha fatto in modo che tale progetto venisse rimandato sine die.
E, allora, a maggior ragione, mi son decisa a mettermi a scrivere, non certo perché mi sentissi pronta – con un autore come Eraclito non si sarebbe pronti nemmeno se ci si fosse votati a lui interamente fin dai tempi del liceo – ma perché più aspettavo, più i dubbi di non farcela o che ci sarebbero voluti almeno altri due anni di studio, mi assillavano… e la vita è breve.
Visto che ve la devo dire tutta, c’era anche dell’altro che mi tratteneva, ed era che Eraclito è affascinato dal tempo del cosmo e da un fantomatico lógos: tutte cose che stentiamo a capire cosa siano o siano state.
Insomma, argomenti non immediatamente comprensibili e nemmeno congeniali per la sottoscritta.
Sì, perché sono una che ama soprattutto le questioni di poetica, ovvero di come chi compone sia poesia che prosa, s’interroga riguardo alle strategie da mettere in atto per raccontare.
Con Eraclito, invece, racconto zero, ma solo pennellate dal sapore spesso sapienziale, enfatizzate dalla sua scrittura in frammenti, dovuta a come ci è giunta, citata a spizzichi e bocconi da autori, talora molto più tardi.
Ma orami il dado è tratto: siete anche voi della partita.
Ora, è giusto che sappiate che quello che state per leggere non è una sorta di “tutto quello che avreste voluto sapere su Eraclito e non avete osato mai chiedere”.
E non è nemmeno un excursus esaustivo del suo pensiero in toto, ma piuttosto un corpo a corpo della sottoscritta con l’Oscuro.
Orsù, la sfida ha inizio: Eraclito a noi due!
Ma anche: Eraclito a noi!
1. Il campo di battaglia.
Prima di entrare nel vivo, forse ha un qualche interesse che vi descriva che cosa si trovi ora di eracliteo sul mio – ahimè! tutt’altro che ordinato – tavolo da lavoro.
L’unico tavolo di cui dispongo nel mio microbico appartamento, tavolo su cui studio, scrivo, mangio e bivacco.
Così vi fate subito un’idea dei “ferri del mestiere”.
Innanzi tutto, la vecchia, ma pur sempre capitale, traduzione di Carlo Diano (1902-1974) dei Frammenti e le Testimonianze, che fu edita postuma grazie a Giuseppe Serra.
Nelle immediate vicinanze si trova un altro classico, almeno per il lettore italiano: la traduzione di Giorgio Colli (1917-1979), che corrisponde al terzo volume de La sapienza greca. Anche questa versione uscì postuma.
Ecco, perciò, un dettaglio logistico: ogni volta che citerò, direttamente o indirettamente, un frammento, compariranno, quasi sempre, due numeri di seguito: il primo (che non mancherà mai) si riferirà all’edizione canonica Diels-Kranz e il secondo (che talora potrà mancare) alla numerazione proposta da Diano.
Quando, invece, mi appoggerò, per qualche singolo frammento, ad una traduzione di Colli, segnalerò anche la sua numerazione.
(Tra parentesi, continuare a battagliare con diverse numerazioni è una cosa che, come minimo, procura un bell’esaurimento nervoso. Eh sì, bisogna essere parecchio innamorati di Eraclito per sciropparsi in continuazione uggiosissime “tavole di concordanze”…).
Tornando al “campo di battaglia”, ossia al mio tavolo, campeggia anche il preziosissimo studio di Clémence Ramnoux (1905-1997): Héraclite ou l’homme entre les choses et les mots (saggio mai tradotto in italiano, come nessun’altra opera di questa geniale studiosa), librone, che, a mio modesto avviso, racchiude in sé le pagine più acute e brillanti mai scritte su Eraclito.
E ve lo posso confessare spudoratamente: senza l’aiuto di Clémence Ramnoux (d’ora in poi CR), brancolerei ancora nel buio. CR si è dedicata per anni e anni a commentare i frammenti e a contestualizzarli rispetto agli autori (molto spesso Padri della Chiesa) che ce li hanno tramandati.
Sempre sull’accidentato piano del mio tavolo, vi è pure una stratificazione di vari quaderni di appunti nonché di fotocopie, mentre tutto il resto (Platone, Aristotele, Diogene Laerzio, Seneca, Marco Aurelio, Nietzsche, Heidegger) giace in scaffali a comodissima portata di mano e spesso avanza, invasivo, fin sulle sedie circonvicine. Sedie che vengono spesso colonizzate anche dal Rocci, famigerato dizionario di greco, cui devo la perdita di parecchie mie diottrie nonché d’aver ridotto a mal partito un mio nervo ottico.
Sorvolo, infine, sui moltissimi files eraclitei ospitati nel mio computer.
2. Un caratteraccio e una morte truculenta.
Generalmente, quando si vuole presentare un filosofo greco antico, si comincia col ricorrere a quello che la tradizione ha tramandato. E la fonte principale rimane: le Vite e dottrine dei filosofi illustri di Diogene Laerzio (d’ora in poi DL).
Ora, siccome costui è forse del terzo secolo d. C., accade che la sua narrazione sia più tarda circa sette secoli rispetto all’epoca in cui visse Eraclito, sicché è inevitabile che si sconfini nella leggenda.
Osserviamo, innanzi tutto, il carattere dell’Oscuro, che sicuramente non doveva essere un carattere né facile, né tanto meno amabile.
E questo lo potremmo affermare anche se non possedessimo nessuna testimonianza, poiché, come vedremo, lo si può desumere facilmente già dai testi che di lui ci son pervenuti.
Ossia dai 129 frammenti che della sua opera ci restano.
Un corpus apparentemente esiguo, ma che, ve lo giuro, può dar parecchio filo da torcere per tutta una vita.
Anche a leggere i Frammenti di tutta fretta, ossia senza volersi soffermare ad analizzarli, salta agli occhi che vi abbondano le invettive nei confronti dei suoi concittadini, dei “non-filosofi” e, in generale, degli uomini tutti.
E sul significato latente di tali rampogne ci soffermeremo a suo tempo.
Ma dove era nato e dove visse Eraclito (550-480 a. C. circa)?
Era di Efeso, antichissima città della Ionia di origine pre-greca, probabilmente ittita, oggi sita nell’attuale Turchia asiatica, quella che poi i Romani chiameranno: “provincia d’Asia” (visitai Efeso, da giovane, a causa delle mie manie archeologiche, quando ancora si poteva viaggiare… ma questa è un’altra storia).
Eraclito faceva parte di una famiglia molto aristocratica, di casta sacerdotale. Vedremo in seguito che il milieu da cui proveniva non gli impedì, però, di essere molto critico nei confronti della religione tradizionale. Tuttavia, l’ascendenza sacerdotale, ancorché rinnegata, lasciò nella sua scrittura una inconfondibile impronta sacrale e profetica.
Quanto alla vita pubblica, Eraclito preferì vivere in disparte.
I suoi concittadini gli offrirono di scrivere le leggi di Efeso, ma lui si rifiutò di farlo perché riteneva che la città fosse ormai in mano ai peggiori (DL, IX, 2).
In particolare era molto sdegnato coi suoi concittadini perché avevano esiliato un suo amico (Ermodoro), sicché affermò che gli Efesini, dai giovani in su, avrebbero fatto bene ad ammazzarsi tutti quanti e lasciare la città in mano a quelli che non avevano ancora raggiunto la pubertà.
Questa sua predilezione per il mondo dell’infanzia è visibile anche in un famosissimo frammento (52.48), che esamineremo poi con calma:
Il corso del tempo (aión) è un bimbo che gioca con i pezzi di una scacchiera: il regno di un bimbo.
Grazie agli aneddoti riportati da Diogene Laerzio, nella fattispecie, il mondo dell’infanzia diviene l’emblema di un mondo non ancora contaminato dai veleni delle politica. Infatti, la narrazione prosegue dipingendoci un Eraclito, che si è ritirato nel tempio di Artemide a giocare coi fanciulli e che così risponde sdegnato agli Efesini, che gli chiedono ragione di questo suo bizzarro comportamento: “Di che vi stupite, o pessimi? Non è meglio far questo che partecipare assieme a voi alla vita della città?” (DL, IX, 3).
E sappiate che vivere fuori dalla pólis per un Greco era inconcepibile!
Quasi tutti conoscono, almeno per sentito dire, la celebre frase di Aristotele, all’inizio della sua Politica (1253 a 8) in cui l’uomo è definito “uno zôon (animale) che per sua natura è politikón”. Il che equivale ad affermare con chiarezza che l’uomo, in quanto tale, è fatto per vivere nella pólis e che, se si rifiuta di inserirvisi, diviene un qualcosa di contro-natura.
Sta di fatto che, nella storia della filosofia greca, successiva ad Eraclito, avremo rari filosofi che rifiuteranno la vita nella città. Ci verrebbe da pensare ad Epicuro (vissuto almeno tre secoli dopo Eraclito), il cui motto era “vivi nascosto”, che implica, tra l’altro, un “vivi lungi dalla vita della pólis”.
Tuttavia, Epicuro aveva costruito una contro-pólis ristretta, ossia il giardino degli amici, piccola comunità di eletti che praticava la sua filosofia in maniera egualitaria e comunitaria.
Anche il grande Diogene di Sinope (circa della stessa epoca di Epicuro), il più illustre rappresentante del Cinismo, sbeffeggiava in tutti i modi la pólis, e talora se ne allontanava, ma pure non rinunciava a mescolarsi spesso e volentieri alla folla dei mercati per provocare a più non posso i non-filosofi con gesti scandalosi quanto eclatanti, tipo mendicare, masturbarsi sulla pubblica piazza etc.
Eraclito, secondo me, è il più radicale di tutti: narra sempre Diogene Laerzio che, ad un certo punto, andando oltre alla sua vita appartata, quando era partecipe solo dei giochi dei bimbi, detestando la frequentazione degli uomini (misanthropéo), si ritirò (anakhoréo) a vivere sui monti, nutrendosi di erba e piante selvatiche.
Eraclito è insomma il primo eremita!
(Purtroppo né Platone né Aristotele ci riferiscono nulla in proposito).
E qui bisogna che lo sottolinei con forza: l’eremitismo era assolutamente inconcepibile per la mentalità greca e, se si cominciò a contemplarlo, fu solo in un’epoca molto più tarda.
Eraclito fu poi costretto a tornare in città perché, probabilmente a causa di questa sua dieta, che oggi definiremmo rigorosamente “vegana”, s’era ammalato di idropisia.
Al che, Eraclito, che aveva scarsa fiducia nelle terapie dei medici (58.36), interrogava costoro in maniera enigmatica (tipo, come ottenere dall’acqua la siccità), ma questi non lo comprendevano e, così, non lo curavano.
Allora, Eraclito entrò in una stalla, si fece cospargere di letame, sperando che il calore facesse evaporare l’acqua che gli gonfiava il corpo. Ma questo espediente fallì e lui morì, secondo DL, all’età di 60 anni.
Di questa morte, già di per sé non certo profumata, esiste una variante leggendaria ancor più truculenta, in cui si narra che fu sbranato dai cani, perché, tutto coperto di letame com’era, aveva subíto una tale trasformazione che non era più riconoscibile (DL, IX, 4).
Una morte orrenda, ma un sospetto – perdonatemi – mi viene: che l’ingloriosa e trucida fine di Eraclito sia una sorta di apologo, la cui morale è: “vedete un po’ che brutta fine fanno i misantropi!”.
3. Si gioca o non si gioca a nascondino?
Prima di proseguire, vi voglio offrire un primo robusto assaggio della proverbiale oscurità di Eraclito e vi propongo un paio di frammenti che alcuni di voi già conosceranno.
Il primo fa risuonare in sé tutta la potenza evocativa, e insieme enigmatica, del suo linguaggio, che ha un’aura decisamente sacrale:
Il signore assoluto (ánax), il cui oracolo è a Delfi, non dice (légei), non nasconde (krýptei), bensì semaínei (93.120).
Diano traduce quel semaínei con “significa” e Colli con “accenna”; io suggerisco un: “fa segni”, dal momento che ogni segno è comunque allusivo e chiede d’essere interpretato.
Questa sentenza può egregiamente fungere da “manifesto programmatico” dello stesso modo di esprimersi di Eraclito e suona anche come un duro monito per tutti coloro che hanno a che fare con la sua scrittura. Sta a significare che non dobbiamo mai cercare facili soluzioni credendo ad una pretesa evidenza del suo dire, cosa che, dato il linguaggio dell’Oscuro, resta una pura chimera.
Ma non dobbiamo nemmeno impelagarci in forzature a causa di filosofi frequentatissimi, che son ormai divenuti un passaggio obbligato. Filosofi che si arrogano la pretesa di disvelare ciò che è nascosto nel pensiero di Eraclito, e non solo in lui. Ovviamente, in questa prospettiva, ne fanno una lettura Cicero pro domo sua, sfruttando e deformando senza scrupoli il pensiero, spesso di qualche filosofo greco, per meglio lardellare la loro filosofia personale.
E qui alludo soprattutto all’ingombrante e fuorviante lettura che di Eraclito fa Martin Heidegger (1889-1976), attribuendogli terminologie e tematiche che gli sono totalmente estranee.
Perdonatemi la velocità con cui liquido questo famoso filosofo tedesco, operazione che a molti miei colleghi filosofi sembrerà blasfema, giacché per tanti di loro, troppi, Heidegger resta una sorta di divinità intoccabile.
Sì, perché sono fermamente convinta che sia assurdo attribuire ad Eraclito termini come “Essere”, “essere dell’essente” o “non-essere”, per non parlare del tema della Verità (a-lethéia) intesa come “non-nascondimento”, “non-latenza”: tutti assi nella manica per Heidegger, ma anche tutte cose che in Eraclito semplicemente n-o-n e-s-i-s-t-o-n-o!
E tale armamentario Heidegger lo dispiega, tra l’altro, nel patetico tentativo di far andare a braccetto Eraclito con Parmenide, il filosofo dell’Essere… ma quando mai?
Scusate lo sfogo, ma a settant’anni ho sempre meno peli sulla lingua: perciò lasciatemelo dire una volta per tutte: studiare Heidegger serve unicamente per capire Heidegger e non certo Eraclito, in particolare, e la filosofia greca, in generale.
Insomma, che la si faccia finita con questo fuorviante filtraggio heideggeriano!
Torniamo al fr. 93. Dopo quello che ho detto sin qui, mi domanderete che senso dobbiamo dare, allora, a quel benedetto semaínei, che si prospetta come una sorta di “terza via”. Ve l’ho già detto: dobbiamo tentare di capire i segni che l’Oscuro ci lancia. E farlo soprattutto cercando di interpretarlo attraverso i suoi stessi messaggi, ossia attraverso altre cose che lui ha scritto.
Questa è la mia modesta proposta.
E qui ci cacciamo subito in un bel pasticcio, specie se proviamo ad accostare il fr. 93 ad un altro celeberrimo frammento che così suona: Phýsis krýptesthai phileî (123.28), sentenza oltremodo sibillina – 92.119: là Eraclito evoca la Sibilla – che di solito vien tradotta con: “la natura ama nascondersi”.
Ma allora come la mettiamo con quel messaggio divino che ci giunge attraverso l’oracolo e che rifiuta costituzionalmente proprio il nascondimento?
Qualche traccia di soluzione l’avevo trovata non tanto in Carlo Diano, quanto nella traduzione di Giorgio Colli (A 92), che pur suonando alquanto sgraziata, qualcosa cominciava pur a suggerirmi: “Nascimento ama nascondersi”. Perché, se il nascondere rimaneva un nodo ancora da sciogliere, almeno la phýsis veniva legata all’idea della nascita.
Per fortuna, il modo di uscirne mi fu suggerito, anni fa, dalle primissime pagine di uno degli ultimi libri scritti da Pierre Hadot (1922-2010): Le voile d’Isis (2004).
Hadot comincia subito a chiarire, mostrandosi, lui sì, conoscitore della lingua greca, che quell’ “ama” (phileî) qui non sta a significare un sentimento, ma una tendenza naturale o abituale, ossia un processo che si produce per necessità o frequentemente.
E questo è già un bel passo avanti!
Inoltre, secondo Hadot, in Eraclito la phýsis non è ancora la Natura come insieme o il principio dei fenomeni, ma piuttosto la “costituzione” propria di ogni cosa compreso il suo processo di genesi di crescita, compreso il suo venir meno.
Altro passo avanti.
Dopo di che, Hadot inizia a scartare varie interpretazioni secondo le quali ogni cosa, per sua costituzione, avrebbe a che fare con una rivelazione.
E già qui, mentre leggevo, cominciavo a fare un gran sospirone di sollievo, perché, anche se Hadot non nomina esplicitamente Heidegger, viene così tolta di mezzo tutta la sua invasiva zavorra della verità come non-nascondimento.
Comincia, allora, a delinearsi una possibile lettura – sì, perché anche quando ce la mettiamo tutta siamo sempre nel campo delle ipotesi e, infatti, Hadot usa spesso il condizionale – ovvero che sia in gioco una forza, che è la medesima nel processo della nascita e della morte.
Ecco, quindi, una delle traduzioni che convince di più Hadot, e pure la sottoscritta: “ciò che fa nascere tende a far morire”.
E Hadot predilige questa versione per gli stessi motivi per cui persuade pure me: ossia perché si inscrive perfettamente nel pensiero di Eraclito che, come vedremo ben più dettagliatamente, quando ci saremo fatti meglio le ossa, si gioca sulla con-presenza (questa espressione è mia e non di Hadot, che non si spinge così lontano) di termini antitetici, quali vita e morte, sonno e veglia.
Per il momento, vi chiedo di avere pazienza: ci arriveremo, ma non possiamo farlo così, su due piedi.
4. Eraclito: l’artista?
Siccome vi ho domandato calma e pazienza, vi chiedo adesso di fare un passo indietro.
Sì, perché è ora che vi faccia prendere confidenza con CR che, tanto per cominciare, apprezzo molto perché è una dei pochissimi studiosi che mi sia capitato di leggere che unisce in sé una conoscenza solidissima della lingua greca, ivi compreso il lessico più arcaico, e una formazione filosofica ad alto livello. Cosa che, vi assicuro per esperienza personale, era ed è cosa rarissima!
Formatasi a Parigi, CR fu una delle primissime donne ammesse, quasi un secolo fa (1927), all’esclusiva Ecole Normale Supérieure.
Ebbe poi varie esperienze e scambi internazionali con quanti si occupavano di Eraclito in Europa e negli USA e non le manca nemmeno un’eccellente conoscenza dell’etnologia e della Storia delle Religioni comparate, avendo frequentato, assieme a Mircea Eliade (1907-1986), Georges Dumézil (1898-1986).
Ad Eraclito (non trascurando, però, né Anassimandro, né Parmenide, né Empedocle, né Democrito, e nemmeno tanti altri) ha dedicato tutta una vita, ma di lei ricorderei almeno un altro capitale saggio, quello su Esiodo: La Nuit et les enfants de la Nuit (1959), dedicato non solo alla Teogonia ma anche alle cosmogonie orfiche.
Per la cronaca, tengo sempre, ormai dai lontani anni ottanta, ad una spanna dal mio tavolo, questo prezioso libretto.
Come ho già detto, in Italia pochissimi conoscono CR e ancora di meno fanno i conti con lei.
No comment!
Dopo aver tributato l’onore che spetta a questa studiosa, vedrete che, pur ammirandola molto, non sempre sono completamente d’accordo con lei.
Partirei da una sua interessante conferenza del 1966: Pourquoi les présocratiques?
E qui avrei subito una riserva da avanzare perché non sono per nulla entusiasta dell’espressione “presocratici”, che CR, nonostante il suo approccio sia molto innovativo, si ostina ancora ad usare.
Questa terminologia non mi garba, dato che Socrate (369-399 a. C.) non ha scritto nulla ed è presente nei Dialoghi di Platone (428-348) come un suo personaggio. E questo fa sì che sia indecidibile e, quindi irrilevante, quanto vi sia di socratico e quanto di platonico in questi testi.
Taglio subito la testa al toro: è Platone che scrive e, perciò, quella dei Dialoghi è filosofia platonica punto e basta!
Per cui, quell’infiammazione filosofica ricorrente, detta: “ritorno a Socrate”, scusate, ma mi fa ridere: si parli, piuttosto, di ritorno a Platone o, meglio, di platonite acuta.
Dal canto mio, preferisco usare l’espressione “pre-platonici”, per designare quei filosofi vissuti prima di Platone.
Del resto, la medesima espressione era già presente anche in Friedrich Nietzsche (1844-1900), che però, a onor del vero, dalla figura di Socrate restò ossessionato fino agli ultimi giorni in cui scrisse di filosofia, ossia fino alla fine del 1888.
CR fa notare che Nietzsche meditò per circa un decennio, dal 1867 al 1877, su “quei Grandi prima di Socrate” e, anche se vi ritornò più tardi, fu soprattutto nella Filosofia nell’epoca epoca tragica dei Greci (1873; d’ora in poi FETG), che dedicò loro un brillante excursus, esaminandoli uno per uno, da Talete a Democrito.
Tutti questi filosofi inaugurano, secondo la fedele e acuta lettura che CR, fa di questo saggio di Nietzsche, un nuovo “tipo di pensiero, un tipo di vita”. In particolare, Eraclito è visto come colui che conduce una vita solitaria, mentre Empedocle, ad esempio, aveva raggruppato attorno a sé una comunità di amici, seguendo il modello di Pitagora.
Insomma, anche Nietzsche rimane impressionato dall’isolamento e dall’eremitismo di Eraclito.
Inoltre, CR fa notare che per Nietzsche Eraclito è un artista.
Ma in che senso Nietzsche afferma che Eraclito è un artista?
Per scoprirlo bisogna, appunto, leggere e rileggere a più riprese FETG, cosa che ho finito di fare proprio adesso, mentre scrivo, e vi assicuro che vengo assalita, ogni volta, da un sempre nuovo e paralizzante sentimento di stupore e di impotenza. Stupore per la bellezza di quelle pagine, specie quelle iniziali nonché quelle dedicate ad Eraclito (§§ 5-8), e impotenza a parlare di Eraclito, dopo che le si è lette.
Perciò, non mi resta di consigliarvi assai caldamente di leggere a vostra volta questo scritto, che è infinitamente più emozionante ed istruttivo di ogni polveroso manuale di filosofia, che tratti dei primi filosofi greci.
Tuttavia, mentirei se vi dicessi che mi trovo sempre d’accordo con certi commenti di Nietzsche.
Partiamo proprio dalla questione di un Eraclito artista. Nietzsche fa perno su quel mirabile frammento (52.48), che vi avevo presentato all’inizio e su cui torneremo in seguito, più d’una volta:
Il corso del tempo (aión) è un bimbo che gioca con i pezzi di una scacchiera: il regno di un bimbo.
In tale gioco Nietzsche vede come sia il bambino che l’artista condividano una medesima innocenza: quella di chi mette in opera un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, il tutto al di là di ogni implicazione morale, ma grazie ad un sentire, che potremmo definire “estetico”.
(Ritroveremo l’innocenza di tale fanciullo-artista in una delle tre mutazioni di Zarathustra, Così parlò Zarathustra, I, Delle tre metamorfosi, ma questa è un’altra storia).
Nietzsche non traduce parola per parola il fr. 52, ma lo interpreta a modo suo e, a mio avviso, lo distorce. Evoca, infatti, l’immagine di un bimbo che costruisce torri di sabbia in riva al mare e poi le distrugge (FETG, § 7).
Immagine oltremodo seducente, peccato che sia del tutto irreperibile nelle svariate, rutilanti, metafore della scrittura eraclitea. Immagine che, non a caso, ne cancella un’altra: quella della scacchiera – che, invece, rincontreremo in un altro frammento, anch’esso capitale (88.22).
Ma andiamo per ordine.
Domandiamoci, allora, perché Nietzsche abbia così in antipatia la scacchiera e che cosa essa rappresenti ai suoi occhi di sgradevole.
Lo possiamo scoprire leggendo un altro scritto giovanile di Nietzsche, di tre anni anteriore a FETG, ossia una conferenza che egli tenne a Basilea nel 1870. Si tratta de Il dramma musicale greco, dove Nietzsche critica duramente Euripide, come farà poi in Nascita della tragedia (1872).
Non ho la voglia, né il tempo, di stare a polemizzare su come, in entrambi questi due scritti, Nietzsche sovrapponga Socrate ad Euripide, cosa che io ritengo indebita ed assurda, ma torniamo alla scacchiera.
Ebbene, Nietzsche vede in Euripide, come effetto del “socratismo”, un “gioco degli scacchi teatrale, la commedia dell’intrigo”. Tutto questo perché il giovane Nietzsche ha una visione “irrazionalistica” dell’arte, basata sull’istinto e non certo sulla ricerca di una struttura dell’opera, ossia di un qualcosa che obbedisca a delle leggi interne, che essa stessa si è date, come appunto fa il gioco degli scacchi, o qualsiasi altro gioco che si giochi, in particolare, su di un tavoliere.
Per capirci, per Nietzsche, Eraclito procede per intuizione ed è una sorta di mistico che contempla la verità – e avrei da dire sulla centralità della “verità” in Eraclito – “in un’estasi degna della Sibilla”, che, insomma, “conosce ma non calcola” (FETG, § 9).
Ne arguiamo, allora, che Nietzsche si rivela impermeabile alla Poetica di Aristotele (che nelle tragedie predilige un plot ben congegnato), ma non tiene conto che già poemi omerici riflettono su se stessi: sulla funzione e sulle leggi della poesia (epica) e del racconto.
Vorrei, insomma, che voi capiste che un bimbo che fa e disfa i suoi castelli di sabbia ha poco a che fare col fanciullo eracliteo che maneggia i pezzi in una scacchiera: nel primo c’è un gioco che sconfina subito nel “capriccio” – e Nietzsche usa proprio questo termine! – e nel secondo c’è un gioco che si sviluppa secondo leggi tutt’altro che “irrazionali”.
Sicché l’idea di un Eraclito artista mi va benissimo, ma a patto di non vedere il suo stile e la sua scrittura come qualcosa che flirta con l’arbitrario. E la mia proposta di leggere i suoi frammenti possibilmente solo attraverso altri suoi frammenti, all’interno di quella scacchiera costituita dal corpus dei suoi scritti superstiti, vorrebbe andare in questa direzione.
CR non mette in evidenza questo partito preso nella lettura nietzscheana di Eraclito, e io ho potuto muovere questa critica solo ora, in tarda età, e a malincuore, essendo stata, da giovane, innamoratissima di Nietzsche e avendo attinto gran parte della mia curiosità per Eraclito proprio da FETG.
Devo riconoscere che, senza l’aiuto di CR, non mi sarei mai accorta dell’importanza dell’immagine della scacchiera, qui e altrove, nella metaforica di Eraclito.
Ma anche di questo parleremo a suo tempo.
5. Il bestiario dei “non-filosofi”?
Quando, nella notte dei tempi, lessi, per la prima volta, i Frammenti di Eraclito, ci capii poco o nulla, ma la mia attenzione fu calamitata da una serie di violente invettive.
Chissà se a tutti i “principianti dell’Oscuro” succede la stessa cosa? Sospetto di sì.
Sentite un po’ come sa insultare Eraclito:
Se gli asini potessero scegliere preferirebbero lo sterco all’oro (9.98).
I porci godono più del brago che dell’acqua pura (13.99).
I cani abbaiano a coloro che non conoscono (97.102).
(Tra parentesi, se uno volesse andare a caccia di facili consensi politici – l’ultima delle preoccupazioni per Eraclito! – dovrebbe meditare a lungo su quest’ultimo frammento, perché mostra come sia assai conveniente far leva sulla paura del diverso…).
Ma che cos’è tutto questo bestiario, vi domanderete? E, soprattutto, con chi se la sta prendendo Eraclito?
Nietzsche ci spiega che Eraclito era “superbo (stolz)” (FETG, § 8) e tale appellativo è per lui tutt’altro che dispregiativo.
Ed Eraclito, sempre per Nietzsche, era regalmente orgoglioso (stolz) perché non si curava affatto del plauso delle masse.
E qui, se vogliamo cercare dei frammenti che mostrino che cosa pensasse Eraclito dei “molti” ovvero de “i più”, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, visto che per lui uno solo è meglio di 10.000, ma a patto che sia il migliore (áristos) (49.74), sicché scelgo il detto più lapidario:
Hoi polloì kakoí, olígoi dè agathoí ossia: “i molti non valgon nulla, i pochi invece hanno valore” (104.78).
Ora, per anni e decenni, avevo pensato che il bersaglio di Eraclito fossero i cosiddetti “non-filosofi”. E adesso, messo da parte ogni pudore, vi confesso che la cosa mi dava pure un gran gusto.
E anche qui, prima di procedere, sono subito costretta a mettere i puntini sulle i, perché voglio essere onesta. Infatti, a guardar bene, la parola philósophos compare una sola volta nel corpus eracliteo. E non ha certo un significato lusinghiero, perché non sta ad indicare quelli – è al plurale – che sono “amici della sapienza”, bensì quelli che millantano di possederla (35.81).
E mancando nel lessico eracliteo la parola philósophos in senso positivo, la vedrete, perciò, in italiano spesso tra virgolette.
Orbene, da poco m’è venuto il dubbio d’aver preso in passato un bel granchio.
Certo, Eraclito è un aristocratico nel senso più pieno del termine, senza dubbio lui prova disprezzo per gli “insipienti”, sicuramente lui ha la netta sensazione di essere circondato da un numero immenso di perfetti imbecilli.
(Vedremo, quando sarà il momento, come tali “insipienti” siano coloro che non fanno nessun conto del lógos… ma, ancora una volta, abbiate pazienza…)
Tuttavia… tuttavia non possiamo pensare di cavarcela così, magari sentendoci anche noi maledettamente intelligenti e stolzen, come il grande Eraclito: eh no, miei cari, troppo facile!
E sapete perché?
Perché, se andiamo a caccia di altri quadretti per il bestiario eracliteo, le cose si complicano alquanto.
Ricominciamo dai gallinacei, che ancora non avevamo incontrato, e che sembrano avere dei punti in comune coi suini. Avevamo lasciato i maiali che si rotolavano bel belli nella mota ed ecco che Eraclito ci fa capire che i porci “si lavano” nel fango e pure i polli “si lavano” nella polvere e nella cenere (37.100).
E a noi cosa importa, direte, di queste maniere discutibili di far toilette? Ma discutibili per chi? Per gli uomini, ovviamente.
Al che, domandiamoci: siamo proprio sicuri che il cosmo per Eraclito sia di impianto antropocentrico?
I primi dubbi ci vengono non appena lasciamo la terraferma:
Il mare è l’acqua più pura ma anche la più contaminata: i pesci se la bevono e ne traggono giovamento, mentre per gli uomini è imbevibile e nefasta (61.34).
Incominciamo, allora, a capire che tutto si può giocare su più piani, in più mondi paralleli, ovvero in una pluralità di mondi, ognuno con una propria prospettiva, che si rivela poi parziale.
Se poi oltre agli animali, entrano in gioco pure gli dèi, abbiamo più mondi disposti sui gradini di una scala.
A tal proposito, troviamo due significativi frammenti, citati come detti di Eraclito, incastonati all’interno dell’Ippia maggiore (289 a-b).
E qui, scusatemi, ma son costretta a seguire, e anche a propinarvi, la solita, noiosa, tecnica argomentativa di Platone, con cui, il suo prestanome (Socrate) s’ingegna a mettere all’angolo il sofista Ippia.
Socrate aveva chiesto ad Ippia di definire ciò che è bello.
E per Socrate non si tratta di trovare una cosa bella, ma di trovare che cos’è il bello.
Prima risposta di Ippia: una bella ragazza è una cosa bella.
Obiezione di Socrate, che chiede lumi a Ippia per poter rispondere ad un suo anonimo interlocutore grossier, uno che non ha avuto una buona formazione; in breve, Socrate dice che costui obietterebbe che anche una cavalla è bella e così pure che una pentola di terracotta ben costruita è bella.
Ippia risponde che un oggetto di quel tipo, se è fabbricato bene, ha una sua bellezza ma che questa non è paragonabile a quella di una cavalla o di una fanciulla – e per giunta illibata – o di altre cose veramente belle.
Ed è a questo punto che Socrate si appella ad Eraclito, dicendo che bisogna obiettare al suo (fittizio) interlocutore di non conoscere il detto di Eraclito:
La più bella delle scimmie diventa brutta se paragonata all’uomo (82.72)
Di modo che, secondo Ippia, la più bella delle pentole diviene brutta paragonata ad una vergine.
Ed è degno di nota osservare che Ippia sottoscrive con entusiasmo questa risposta. Va notata pure la malafede di Socrate-Platone che finge di esser d’accordo col modo di pensare di Eraclito, mentre vi è lontano anni luce.
E che pure tale interlocutore grossier sia una finzione bella e buona, e nemmeno troppo abile, frutto della solita ironia socratica, è un espediente che viene subito smascherato dal fatto che Socrate dice che sa già cosa controbatterebbe detto rozzo interlocutore, e lo farebbe usando, a sua volta, Eraclito – che, quindi, conosce!
Ebbene, tale pinco pallo, dietro il quale fa capolino Socrate-Platone, direbbe che la più bella delle fanciulle apparirebbe brutta se paragonata alla più bella delle dee.
E giù con un’altra citazione, che poi diventa un altro dei frammenti di Eraclito:
Il più sapiente degli uomini apparirà una scimmia per sapienza e bellezza e per tutte le altre cose se paragonato al dio (83.72).
Insomma, concludendo, ne deduciamo che, nella visione di Platone, Eraclito e i Sofisti sono della medesima pasta perché son tutti dei “relativisti”- termine contemporaneo, ma era per farvi capire il problema.
Per la cronaca, gli studiosi di Eraclito non sono per niente d’accordo tra di loro su questo punto: c’è chi rigetta il “relativismo” e chi lo sostiene.
Io sarò sincera, pur essendo troppo presto perché prenda nettamente partito, propenderei per la seconda opzione.
Anche perché mi ha sempre colpito un frammento che sempre, in questo cambio di prospettiva tra uomini e dèi, finisce per far apparire la morale nient’altro che un’illusione ottica. Sentite qua che bomba:
Mentre per il dio tutte le cose sono belle e buone, gli uomini, invece, alcune le reputano giuste e altre ingiuste (102.69).
Abbiamo così, da un lato, la divinità che spazia al di là del bene e del male – e questo è un tratto maledettamente greco! – e, dall’altro, gli umani che giudicano solo in base alla loro visuale ristretta, che è nettamente inferiore a quella degli dèi (79.71).
Ma qui mi sorge un dubbio tremendo: come fa Eraclito, che pure è un uomo, a parlare di un modo di sentire di giudicare totalmente altro dall’umano, quale è quello divino?
Nietzsche, e non solo lui, indicano la via estatico-mistica.
Io sono costituzionalmente riottosa ad abbracciare questa posizione e, per il momento, preferisco sospendere il giudizio, almeno fino a quando parleremo, non solo del lógos, degli opposti, del Fuoco, ma soprattutto quando Eraclito ci farà capire meglio il carattere della sua ricerca.
6. Eraclito, la tradizione e certe novità.
Sinora abbiamo visto un Eraclito sdegnoso e “aristocratico” ma questo non vi deve indurre a credere che lui sia un conservatore. Perché niente è più lontano dalla visione del mondo del Nostro. Infatti, riguardo a quello che pensa della tradizione, una volta tanto, Eraclito è chiaro ed inequivocabile:
Non bisogna (agire) come figli dei propri genitori (74.95).
A riportare questo detto è Marco Aurelio (IV, 46), uno dei testimoni più importanti di Eraclito. E l’imperatore-filosofo ci aiuta a capire la portata radicale di questa sentenza esplicitandone il senso, ossia spiegando che le cose non vanno accettate così come ci sono state tramandate.
Del resto, Eraclito, anche in altri frammenti, dimostra chiaramente di rifiutare l’educazione tradizionale in blocco: paideía che in primis si basava sulla sapienza dei poeti, sia più antichi, sia più recenti, ovvero sia epici che lirici. Se la prende, infatti, tanto con Omero (105.85), quanto con Archiloco (42.84).
Omero è messo alla berlina, in maniera assai dissacrante, perché non è riuscito a risolvere un indovinello propostogli da dei fanciulli, che aveva come oggetto dei pidocchi (56.83).
Perché non amasse Archiloco non è dato sapere.
Esiodo poi è visto da Eraclito come il fumo negli occhi, in quanto propagatore di una conoscenza fasulla, che piace “ai più”:
Della maggioranza è maestro Esiodo, e questi son capaci di dire che egli conosce moltissime cose, quando non conosce né la notte né il giorno, che infatti sono una cosa sola (57.86).
Vi spiego: Esiodo sosteneva, nella Teogonia (vv. 123-124) che la Notte e il Giorno, non solo sono due entità differenti, ma che il secondo era stato generato dalla prima. Inoltre, Esiodo era anche autore de Le opere e i giorni e colà (vv. 765-822) distingueva tra giorni fausti e giorni infausti, propizi o meno per varie attività. E neppure questo andava bene ad Eraclito, il quale, invece, era convinto che la natura di ogni giorno fosse sempre una e la medesima (106.87).
Ma dove Eraclito aveva soprattutto il dente avvelenato nei confronti di Esiodo era riguardo al “sapere molte cose” (polimathíe). Questa, secondo il Nostro, scade in pura erudizione e non insegna a pensare, altrimenti lo avrebbe insegnato, non solo ad Esiodo, ma anche a Pitagora, Senofane ed Ecateo (40.82).
Accidenti, che bella sfilza di sapienti – presunti, secondo Eraclito – sono stigmatizzati in una sola riga!
Si tratta della messa al bando di un poeta ritenuto il più illustre assieme ad Omero, di un matematico (ma vedremo che questo aspetto non interessa ad Eraclito), di colui che normalmente è reputato il precursore di Parmenide e del più importante scrittore di viaggi prima di Erodoto.
Probabilmente questi ultimi due erano ancora in vita, all’epoca di Eraclito.
Vecchi e nuovi mostri sacri, potremmo dire.
Nemmeno Pitagora è di molto anteriore ad Eraclito, il quale non lo apprezza perché, a suo avviso, aveva fatto moltissime ricerche, procurandosi svariati scritti, per poi ottenere una polimathíe, ossia un sapere nozionistico fittizio che si traduce in “un’arte fraudolenta” (129.88).
Inoltre, Pitagora, sempre agli occhi di Eraclito, non sarebbe solo un imbroglione, ma altri imbroglioni avrebbero avuto inizio da lui (81.89).
Insomma, sembrerebbe – uso il condizionale perché non si tratta di frammenti di facilissima interpretazione – che Pitagora venga da Eraclito rigettato non tanto come matematico, ma come una sorta di mago e di sciamano e, per giunta, iniziatore di una setta comunitaria (i Pitagorici) che, intuiamo, non andavano per niente a genio al Nostro.
Se Pitagora e i Pitagorici costituivano ancora una relativa novità, nemmeno altre forme di religiosità più tradizionali piacevano ad Eraclito.
Ad esempio non sopportava le iniziazioni ai misteri che erano solitamente in uso, ritenendo che non avessero nulla di sacro (14.122).
Sicché, ogni interpretazione iniziatico-esoterica di Eraclito, specie alla luce di questi ultimi frammenti, mi sembra forzata e, per dirla tutta, con buona pace di Colli, una grossa sciocchezza.
E ancora Eraclito non amava nemmeno i sacrifici che vorrebbero essere riti purificatori, ma, essendo cruenti, finiscono per contaminare (5.121).
Il finale di questo frammento è ancora più sorprendente perché ha di mira coloro che rivolgono preghiere alle statue degli dèi. Ossia praticamente tutti i fedeli che frequentavano i templi.
Ebbene, Eraclito pensa che chi prega così è come se chiacchierasse con gli edifici, senza sapere davvero chi sono gli dèi e gli eroi.
Vien da domandarci, allora, se Eraclito, in questo suo disdegno della religiosità, quella più “nuova” (Pitagora) e quella più tradizionale, fosse totalmente irreligioso.
Nient’affatto, se dobbiamo prestar fede ad Aristotele (Le parti degli animali, 645 a 17-21), che riporta un significativo episodio.
Vi erano degli stranieri che desideravano incontrare Eraclito, ma costoro, dopo aver visto che lui si stava riscaldando presso il camino, si fermarono. Al che, il Nostro disse loro di farsi coraggio e di entrare, perché “anche là vi erano dèi”.
Insomma, abbiamo un Eraclito, una volta tanto, non scorbutico, non nemico del genere umano, ma addirittura gentile ed accogliente grazie ad una visione onnipervasiva della divinità.
A questo punto, un moderno definirebbe Eraclito un “panteista”. Tuttavia, questa classificazione risponde ad un modo di pensare tipico di chi contempla anche un’altra possibilità: quella della trascendenza; ma è proprio quest’ultima visione del mondo ad essere completamente estranea ad Eraclito.
E in questo sottoscrivo in pieno l’interpretazione di CR che non riscontra nel Nostro nessun tipo di dualismo (p. 241, 288, 544).
Quel dualismo, che sarà poi di Platone, tra mondo delle idee e mondo sensibile.
Ma, allora, direte voi, venendo al dunque, cosa dobbiamo pensare della religiosità di Eraclito?
Eraclito, ad esempio, vuole forse sbarazzarsi delle divinità olimpiche, che ancora caratterizzavano la religione tradizionale?
Per un verso sì e per un altro no.
Per capirlo leggiamo questo sibillino frammento:
La cosa saggia (tò sophón), che è unica, vuole e non vuole essere detta col nome di Zeus (32.67).
Ma che cosa è mai “la cosa saggia”?
Ecco, denota assieme ad altri termini con cui dovremo presto entrare in confidenza, tipo il fuoco, il lógos o il corso del tempo (aión) e altri che incontreremo, un tentativo di Eraclito di formare un nuovo lessico filosofico.
Un lessico filosofico che – badate bene – prima di lui non c’era ancora, o che, al massimo, era rimasto solo ai primi vagiti. E faremmo molto male se non ne tenessimo conto.
Ma faremmo ancora peggio se forzassimo questo lessico e lo giudicassimo in base a quello che avverrà in philosophicis solo dopo Eraclito.
Insomma, non dobbiamo adottare un modo di pensare post-aristotelico, basato sul principio di non-contraddizione che non ammette – ve lo dico in soldoni – che di una stessa cosa si possa dire che sia e insieme che non sia.
Non a caso, è lo stesso Aristotele a rimproverare ad Eraclito di essere sprovvisto del principio di non contraddizione: Metafisica, 1005 b 19-34.
Perché Eraclito non ragiona così!
Ecco perché può affermare: “vuole e non vuole essere detto”.
Siete curiosi di sapere cosa combina ancora questa famigerata “cosa saggia”?
Sentite qua come traduce Diano (13) un ostico ma cruciale frammento, in cui la ritroviamo:
Una è la sapienza, conoscere la mente (gnóme) che per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto.
Fascinosa versione!… che però ha due principali difetti: il primo che tò sophón non può essere semplicemente con “la sapienza”, perché, allora, sarebbe solo qualcosa di umano, mentre, secondo me, allude a qualcosa di ben più vasto, che ha a che fare col divino.
Inoltre, in greco non c’è nessun “Tutto” ma, piuttosto, “tutte le cose”.
Vi propongo, perciò, una mia traduzione, assai meno elegante, purtroppo cacofonica, ma più letterale:
Una è la cosa saggia: conoscere il pensiero, che regge il timone governando tutte le cose attraversando tutte le cose (41).
Lo so, c’è da uscirne pazzi!
Ma una cosetta almeno cominciamo a capirla: non dobbiamo mai parlare di unità – Eraclito dice spesso “uno” – pensando di poterci bellamente sbarazzare della pluralità.
Perché, miei cari, questi due aspetti sono sempre con-presenti.
E, per la cronaca, anche Nietzsche (FETG, § 6) è di questo parere.
7. Il tormentone del pánta rheî.
Ora che abbiamo scoperto che Eraclito non era un conservatore, dobbiamo verificare se non siamo noi dei conservatori, in particolare, per quello che lo riguarda.
Ossia siamo sicuri che, nel nostro primo avvicinarci ad Eraclito, non siamo stati prigionieri, restandoci poi per anni, di una formuletta pseudo-eraclitea che la tradizione ci ha consegnato, bella e confezionata? E che noi abbiam ripetuto a pappagallo, senza domandarci da dove fosse piovuta?
Provate a domandare a bruciapelo a qualcuno che cosa sa di Eraclito. Ora, premesso che hoi polloí non ne sanno un bel niente, quei pochi che lo hanno sentito nominare, subito si illumineranno ed esclameranno: “ma non era quello del pánta rheî? ”.
E di cosa ci possiamo stupire se persino a Sanremo (2017) vinse una spassosa canzone (Occidentali’s Karma), destinata a diventare assai popolare, in cui pánta rheî veniva trionfalmente ripetuto e pure ci si ballava sopra?
Anche un simpatico gentiluomo napoletano, spiritoso divulgatore del mondo antico – sto parlando di Luciano De Crescenzo – aveva scritto un piacevole libro, dedicato ad un Eraclito redivivo, che s’intitolava, per l’appunto: Panta Rei (1994).
E non vi sconsiglio affatto di leggerlo, visto che è divertente e pieno di fantasia, ma a patto che non crediate a una parola di quello che ci sta scritto.
Insomma – ve lo devo confessare – il tormentone del pánta rheî aveva contagiato pure me e, quando, per la prima volta, mi misi a leggere con calma i Frammenti, lo andavo cercando… ma invano!
Per l’esattezza, la frase intera del tormentone così suonava: pánta rheî òs potamós (tutto scorre come un fiume) ed è giusto quella che pensavo di trovare.
Ebbene, setacciando con cura, nell’originale greco, la testimonianza di Diogene Laerzio, rinvenni alfine un ginésthai te pánta kat’enantióteta kaì rheîn tà hóla potamoû díken. Ovvero: “Tutte le cose divengono secondo i contrari (secondo le cose più contrarie) e nella loro totalità scorrono alla maniera di un fiume” (IX, 8).
Ed eccolo qua il responsabile del riassuntino che è poi passato, ancor più semplificato, nel parlar comune!
Ma – ormai lo sapete – io sono maledettamente onesta e volevo rendermi conto ancor meglio se lo stereotipo del pánta rheî avesse una qualche giustificazione in un’autorità più grossa e precedente il tardo Diogene Laerzio.
Al che, puntai diritta dritta su Platone e, innanzi tutto, sul Cratilo, dove mi ricordavo che uno dei personaggi, Cratilo per l’appunto, veniva qualificato come un seguace di Eraclito.
Lasciamo stare per il momento lo spinoso problema principe di questo dialogo, che è poi anche uno dei problemi che già si poneva Eraclito, ossia domandarsi se vi sia o meno un nesso necessario tra le cose i loro nomi.
Esaminiamo, invece, un passo in cui si attribuisce ad Eraclito la convinzione che: “le cose che sono si muovono (letteralmente “vanno”, “sono in cammino”) tutte e niente resta fermo” (401 d).
Subito dopo Socrate dice di avere una sorta di visione in cui vede Eraclito che enuncia un’antica e saggia dottrina che gli deriverebbe da Omero (Iliade, XIV, 201), dottrina che così suona: “tutte le cose mutano luogo nello spazio (khoreî) e niente sta fermo” (402 a).
Uno spiazzante mutamento, potremmo dire.
A questo punto, subentra l’immagine del fiume, ma propongo di affrontarla con calma solo in seguito, altrimenti perdiamo il filo.
Torniamo un passettino indietro perché non penso che vi sia sfuggito il fatto che Socrate-Platone accomuna Eraclito ad Omero. Ma come è possibile se Eraclito Omero proprio non lo può sopportare?
E non basta: qualche riga più sotto Eraclito viene avvicinato ad Esiodo e anche di quest’ultimo abbiamo visto che idea lusinghiera avesse il Nostro…
Ma, subito ci domandiamo: Socrate-Platone è disposto per davvero ad accettare le teorie eraclitee, che ha finto di lodare, fregiandole d’aver origine da una veneranda e antica saggezza?
Ovviamente no.
Il cruccio di Socrate-Platone si scopre chiaramente verso il finale del Cratilo (440 a-b), quando viene riproposto il moto continuo delle cose: “metapíptei pánta krémata kaì medèn ménei”: “tutte le cose mutano e niente sta fermo”.
E fa capolino un altro verbo (metapípto) che, in questo brano, vien ripetuto ben quattro volte in pochissime righe, che non indica più soltanto il movimento, ma anche il mutamento e, addirittura, la metamorfosi.
Si tratta di un verbo interessantissimo che è legato allo spostare i pezzi, giocando su di una scacchiera, non so se mi spiego… e rincontreremo questo singolare verbo in un frammento cruciale di Eraclito (88.22), su cui dovremo riflettere parecchio <§ 16>.
Per il momento, accontentiamoci di tradurre metapípto con “cambiare”, “mutare”, “trasformarsi” e di seguire il ragionamento platonico.
Ora, e se la gnôsis (la conoscenza) si trasforma, essa cesserà di essere conoscenza e non solo: non vi sarà più chi conosce, né ciò che va conosciuto.
Se, invece, chi conosce esiste sempre, ci sarà anche ciò che si conosce, come il bello, il buono e come ogni essente – e tutto questo mi puzza lontano un miglio da teoria delle idee…
Ovviamene, tale permanere non ha nulla a che vedere con lo scorrere ed è a questo punto finalmente incontriamo il verbo rhéo.
(Ecco, perciò, dove ha presumibilmente pescato Diogene Laerzio!).
Lo incontriamo laddove Socrate finge di non aver ancora chiaro se le cose non mutano – come starebbe meglio a lui – o se invece cambiano, come sostengono Eraclito e gli Eraclitei.
Al che, non si sa come, fanno capolino dei sorprendenti “vasi d’argilla, in cui tutte le cose fluiscono (pánta hósper kerámia rheî, 440 c)”.
Bah?! Saranno anche delle semplici anfore, ma – poco da fare! – a me vengono in mente vasi, che hanno tutta l’aria di non esser preposti a nobili uffici.
Infatti, Platone scopre subito dopo le sue carte e se ne esce con un paragone, a dir poco, sgradevolissimo.
Questo scorrere si trasforma, allora, in un orrido scaracchiare: hypò rheúmatós te kaì katárrou pánta tà kremáta ékhesthai: “tutte le cose sono prese da una flussione di catarro” (440 d).
Che schifo!
Nemmeno a dirlo, tale trucidezza viene edulcorata, o nascosta del tutto, nella maggior parte delle traduzioni.
Insomma, avete appena potuto vedere da vicino come l’ironia socratica si esplichi in modo pesante, sgradevole ma anche vigliacco: prima Socrate afferma che non osa contraddire le teorie di uomini così tanto sapienti per poi degradarli, dando un’immagine oltremodo ributtante di quello che essi sostengono.
Ripeto: che ribrezzo!
Meglio che ci affrettiamo a detergerci nelle acque del fiume eracliteo… sempre che questa si riveli un’impresa agevole…
8. L’immagine del fiume.
Se pensavate di fare un bel bagno purificatore e rilassante nel fiume eracliteo, vi avverto che resterete delusi, visto che, più di un corso d’acqua, si tratta di un gran vespaio.
Questo perché tutti i commentatori non fanno altro che fare i sofistici perché affermano o che quel pezzo di frase o quell’avverbio non sono eraclitei e che, quindi, quel tal brano è interpolato e, perciò, inautentico e via di questo passo.
Che strazio!
A parte che, per come ci sono giunti i lacerti della scrittura eraclitea, già suddividere nettamente i Frammenti dalle Testimonianze è un’impresa disperata se non insensata (Colli, ad esempio, è molto critico a riguardo), non ho voglia di rendervi conto di tutte queste polemiche; sicché mi affiderò al mio buon senso.
Vi faccio un esempio: le citazioni di Eraclito contenute nell’Ippia maggiore (quelle sulla scimmia etc.) sono annoverate tra i Frammenti mentre, invece, quelle che stanno nel Cratilo, tra le Testimonianze.
Perché mai? Mistero!
Ripartiamo, allora, proprio dal Cratilo (402 a) dove, dopo aver affermato che, per Eraclito, tutte le cose cambiano di posto e niente sta fermo, paragonando “le cose che sono” – ecco, questa espressione mi sembra poco eraclitea – al fluire di un fiume, si riferisce che Eraclito avrebbe anche detto: “Non potrai entrare due volte nello stesso fiume”.
Quest’immersione problematica stuzzicò in seguito anche Aristotele il quale ci testimonia che Cratilo – in qualità di seguace di Eraclito, che, evidentemente, voleva superare il maestro – era dell’idea che nello stesso fiume non ci potesse entrare nemmeno una volta sola (Metafisica, 1010 a 7).
Riflettiamo: il fiume eracliteo apre contemporaneamente due prospettive.
Quella del fiume in sé – che quanti amano le semplificazioni s’affrettano a chiamare: “il divenire” – e una seconda prospettiva che riguarda chi s’immerge in tale flusso e che fa esperienza di un qualcosa che insieme si dà e non si dà.
D’accordo, sono stata troppo sibillina – chi va con l’Oscuro impara ad oscurare, ed è un brutto vizio – sicché, per tentare d’essere più chiara, vi voglio proporre un frammento (49a) tramandatoci, non da Platone o Aristotele, ma da un omonimo di Eraclito, che però visse tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo. Si tratta di un erudito che volle interpretare i poemi omerici in chiave allegorica.
Mi servirò della versione di Giorgio Colli (A 46), che, in questo caso, giudico ottima e che, quindi, non ritoccherò:
Negli stessi fiumi tanto entriamo quanto non entriamo, tanto siamo quanto non siamo.
Vi ricordate della “cosa saggia”? Quella “che vuole e non vuole essere detta col nome di Zeus” (32.67)? Ebbene, anche ora, a mio parere – ma mi rendo conto che si tratta di un’ipotesi – stiamo facendo esperienza, immergendoci in questo frammento, della con-presenza o, meglio, della con-possibilità, che è tipica del linguaggio di Eraclito.
Ma della con-presenza di cosa? In questo caso, della con-presenza di due prospettive: una più “cosmica” (il fiume) e una più “antropocentrica”, ossia quella di coloro che entrano nel flusso e si sentono mutati.
Seneca, in una lettera (58,23), commentando il solito passo del Cratilo (402 a) ci spiega: “mentre dico che le cose mutano, io muto” e fin qua, posso esser d’accordo, ma poi Seneca fa un passo successivo, che mi affascina parecchio ma che, però, mi lascia perplessa. Insomma, assimila il fiume al tempus e si lancia in una delle sue riflessioni “esistenziali” preferite. Ovvero spiega che non ha alcun senso temere la morte “quando ogni momento è la morte della precedente condizione (habitus) di vita”, comprese tutte le consuetudini che avevamo.
Appare chiaro, allora, che il tempo di Seneca è un “tempo vissuto”, mentre quello di Eraclito avrebbe tutta l’aria di essere anche – sottolineo “anche” – un tempo cosmico, che pure si dà e non si dà a colui – il “bagnante” – che ne fa una così complicata esperienza.
Peccato che le cose non siano così semplici! Eh sì, perché Eraclito non ci autorizza mai ad assimilare il fiume al tempo: sarebbe troppo bello!
Perché saremmo a cavallo per capire un po’ meglio il bimbo (immagine del “corso del tempo”, aión), che gioca con la scacchiera (52.48).
Quanto alla parola khrónos, la cercheremmo invano nel corpus eracliteo.
Insomma, seppur tentatissimi, questa equivalenza fiume=tempo, purtroppo, non la possiamo fare.
E così restiamo a bocca asciutta o, meglio, restiamo a mollo in questo rapinoso fiume.
D’accordo, ci mettiamo a nuotare, ma come e verso dove?
Eraclito – con cui sono in costante colloquio da mesi – sembra risponderci: “Cosa volete da me? Nuotate, imbecilli!”.
Eh sì, perché mentre credevamo di aver capito almeno una cosa, una sola, del fr. 49a, ovvero che tanto il fiume, quanto i bagnanti sono immersi nel mutamento, ecco che arriva un’altra sentenza (12.57), sempre incentrata sull’immagine del fiume e dei bagnanti, che rischia di farci affogare di brutto. Anche in questo caso, userò come salvagente la versione di Giorgio Colli (A 44):
A coloro che entrano negli stessi fiumi continuano ad affluire acque sempre differenti (12.52).
Prima di tentare un commento, vorrei farvi notare che in questi due frammenti, il fiume non è mai al singolare bensì sempre al plurale. Particolarità che scompare, ad esempio, nelle traduzioni di Diano.
Invece, per me, questi plurali, che si estendono anche ai bagnanti, non sono cosa da sottovalutare. Perché – ricordatevelo sempre! – in Eraclito la pluralità non può essere mai neutralizzata da qualsivoglia unità.
Sorge anche un’altra domanda: perché si dice “medesimi fiumi”? In che consiste tale punto fermo? E ancora: come si concilia questo permanere, specie nel fr. 12, con “acque sempre differenti”?
CR (pp. 415-417) ci prospetta varie ipotesi, anche se purtroppo parla sempre di “fiume” e non di “fiumi”.
La prima ipotesi è che la misura dello scorrere resta sempre la stessa, allo stesso modo che nella clessidra – che per i Greci era ad acqua – dove scorre sempre la stessa quantità acqua, nel medesimo lasso di tempo. I Greci misuravano così, ad esempio, il tempo assegnato ai vari oratori nei tribunali.
CR scarta poi questa ipotesi perché contemplerebbe un fiume astratto, interpretato in maniera simbolica, mentre nei fiumi concreti vi sono periodi di piena e di secca. In generale, CR dice che l’impianto simbolico del discorso non appartiene all’epoca di Eraclito, ma è qualcosa di più tardo.
La seconda ipotesi è che il fiume sia sempre lo stesso perché a permanere, nonostante il fluire, è il nome di “fiume”.
Questa era la soluzione di Seneca, che nelle righe immediatamente successive al brano che ho appena citato, dichiarava: manet enim idem fluminis nomen, acqua transmissa est (“il nome del fiume rimane infatti il medesimo, mentre l’acqua è già passata”).
E qui CR ha buon gioco a scartare questa ipotesi citando un ingegnoso frammento di Eraclito, basato su di un bel gioco di parole:
Il nome di arco è vita, ma quello che mette in opera è la morte (48.49).
In greco, infatti, “arco” si può dire sia tóxon sia biós. E bíos significa “vita”, anche se, ad essere pignoli, l’accento cade in due maniere diverse.
Quello che è importante, commenta CR che non sottolinea questo differire degli accenti, è che il nome e la cosa, in questo frammento, si contraddicono.
Anche “la cosa saggia”, aggiungo io, ha dei problemi ad essere detta col nome di Zeus (32.67).
Veniamo alla terza ed ultima ipotesi, che CR sembra preferire, anche se, poi non se la sente di scartare del tutto la seconda.
Insomma, CR, proprio perché ha escluso che il fiume sia un simbolo, optando per un fiume concreto, finisce per evocare la scena di un paesaggio, dove ciò che cambia è quello che circonda il fiume, mentre il fiume resta sempre lo stesso. E qui CR evoca addirittura il panorama che più le è familiare: quello di Parigi e della Senna. Parigi cambia, ma la Senna resta molto più simile a se stessa.
Bah!
Con tutta la stima che ho per CR, scuoto la testa.
Fosse altro perché quello che lei evoca è un paesaggio urbano (persino di una metropoli) e, se optiamo per un fiume concreto e non simbolico, allora dobbiamo pensare ai, ben più piccoli, fiumi che poteva vedere Eraclito, nella regione a lui circonvicina.
Tuttavia, anche se ad Efeso ci sono stata, non ho nessunissima intenzione di tenervi una lezione sulla topografia della zona.
Ora, essendo esausta dopo tanto nuotare, provo a tornare sulla riva.
E là mi ingegno ad inscenare una conclusione… provvisoria.
Ecco, il fatto che i fiumi siano gli stessi potrebbe significare che quello che ritroveremo sempre è il cambiamento o, molto meglio – non scordatevi mai i plurali! – i continui cambiamenti (le acque sempre differenti) che, incessantemente, mutano anche noi stessi, che viviamo nel flusso.
Perciò, questi due frammenti non stanno trasmettendo messaggi tra loro inconciliabili.
E questo nonostante le diverse angolature da cui guardare la scena: se incentrandoci, ora sui fiumi, ora sui bagnanti.
Ma come possiamo trovare le parole per dire tutto ciò, dopo che proprio le parole sono così insufficienti?
Non dicendolo, non nascondendolo, ma solo accennandovi, lanciando segnali (93.120)… ossia continuando, malgrado tutto, a scrivere sulle labili tracce dell’Oscuro.
9. Eraclito: il filosofo che per primo dice “io”.
Rileggendo il fr. 49a (uno dei due dedicati all’immagine del fiume), si nota che Eraclito usa la prima persona plurale. Ossia, dicendo “entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”, sembra suggerirci che nel fluire del fiume lui si trova immerso al pari di tutti gli altri.
Ma forse è una sorta di “plurale maiestatico”, obietterete.
Penso proprio di no, per la semplice ragione che Eraclito mostra di saper usare con sapienza e raffinatezza più persone verbali.
Tanto è vero che è il primo filosofo a dire “io”.
Noi viviamo in un’epoca di egotismo ipertrofico, in cui dire “io” sembra la cosa più scontata del mondo, sicché non ci fa nessun effetto, anzi!
Prima di Eraclito, i poeti lirici, inaugurando un nuovo modo di far poesia, diverso dall’epica, dove l’io del cantore quasi mai si palesava, avevano detto orgogliosamente: egó. Saffo ed Alceo (entrambi poeti della stessa regione di Eraclito), ad esempio, avevano dichiarato quello che preferivano, distaccandosi con orgoglio dai valori comunemente accettati.
Sicché, questa nuova affermazione dell’io in Eraclito diviene una e vera propria “rivoluzione filosofica”. Tanto è vero che, anche dopo di lui, i filosofi che oseranno dire “io” resteranno sempre una minoranza.
Nell’antichità lo dirà Gorgia, nel tardo antico ci saranno Seneca, Marco Aurelio, Agostino, all’inizio del medioevo Severino Boezio, nella modernità Cartesio e, in un’epoca più vicina a noi, Stirner e Nietzsche. Sorvolo sul ‘900, dove, invece, l’io è più frequente, anche se rimane chi in prima persona non si esprime mai o quasi mai.
Ovviamente, l’elenco che avete appena letto è assai lacunoso e criticabile, ma era solo per darvi un’idea.
Ma perché questa resistenza dei filosofi ad esprimersi con la prima persona singolare?
Secondo me, perché il filosofo pretende sempre di essere oggettivo, quando l’oggettività semplicemente non esiste.
L’oggettività è un’utopia o una chimera. O tutte e due.
Ma torniamo al mondo antico, dove mi ha sempre fatto effetto che Platone si nascondesse dietro al suo principale maestro e che, scrivendo i vari copioni di quel teatro filosofico che sono i suoi dialoghi, non abbia mai messo in scena una disputa tra lui (Platone, come personaggio) e il mattatore, alias il solito Socrate.
Tre sole volte Platone nomina se stesso e molto di sfuggita. Due volte nell’Apologia (34 a, 38 b), dove ci fa sapere d’esser stato presente nel tribunale che condannò a morte Socrate. E una all’inizio del Fedone (59 b), dove nell’enumerazione dei vari discepoli accorsi per prendere commiato da Socrate, osserviamo un grosso buco: “Platone, credo, era malato”.
Per la cronaca, lo apprendiamo dal personaggio di Fedone, dipinto come affezionatissimo a Socrate, di cui narra le ultime ore di vita.
Cosa volete che vi dica? Non ci vedo nessuna discrezione in questo autocancellarsi, non solo dagli interlocutori principali del morituro (Fedone, Simmia, Cebete), ma persino dal nudo elenco dei presenti.
Ovviamente, si tratta di una finzione narrativa, ma in quell’indisposizione e in quel “credo” si manifesta tutta la vigliaccheria di Platone.
Ma è meglio che torniamo ad Eraclito che, mostrandosi senza paura a viso aperto, se ne esce in una sentenza lapidaria quanto sorprendente:
Ho consultato me stesso (101).
Diano (126) chiude volutamente, ad effetto, la sua raccolta dei frammenti proprio con questo frammento che traduce con: “Ho indagato me stesso”.
Sentiamo come risolve Colli (A 37): “Tentai di decifrare me stesso”.
A me questa soluzione non dispiace perché raccoglie un suggerimento di Nietzsche, che aveva proposto: “Ho cercato e indagato me stesso” (FETG, § 8), che faceva notare come il verbo in questione (di-zetéo), che sia Nietzsche che Colli sdoppiano, designi la consultazione di un oracolo. E, a tal proposito, vari commentatori ricordano a conferma passi di Erodoto (cfr. ad es. IV, 151).
Per questa ragione, avevo tradotto in un primo momento: “Ho interrogato me stesso”, salvo accorgermi che forse rischiavo di non rendere esplicito il linguaggio oracolare.
Quanto alla famosa sentenza dell’oracolo delfico: “conosci te stesso”, non sono affatto convinta che sia quella la sponda da cercare, ma penso, piuttosto, che questo prepotente venire alla ribalta dell’io abbia a che fare con un atteggiamento di fondo tipico di Eraclito, che, come abbiamo già visto, è profondamente critico nel confronti della tradizione.
Ce lo conferma egregiamente già Diogene Laerzio (IX, 5), il quale chiosa questo detto, dichiarando che Eraclito non fu allievo di nessuno e che aveva tratto ogni insegnamento unicamente da se stesso.
Insomma, se abbiamo visto che Eraclito, per sua formazione, non disdegna il linguaggio oracolare (93.120), piegandolo al suo modo di far filosofia, sappiamo pure che la sua religiosità è altra cosa.
Ecco perché ho preferito rendere con il verbo “consultare”, dove vien conservata l’esigenza di un responso di un vaticinio, tenendo presente, però, che l’oracolo non è a Delfi o in qualche altro noto santuario, ma è racchiuso nell’Oscuro medesimo.
Vi suggerisco, tuttavia, di non intrepretare il fr. 101 come un invito all’introspezione – sarebbe anacronistico, ossia una forzatura troppo moderno-contemporanea – bensì come un manifesto di una radicale autosufficienza.
Se Eraclito non ebbe maestri, intuiamo da altri frammenti che lui dovette avere delle grosse disillusioni quando, a sua volta, tentò di insegnare qualcosa ad altri.
E lo desumiamo da un paio di frammenti, dove non troviamo solo un verbo alla prima persona singolare, ma addirittura un egó oppure il pronome “me”.
Non vorrei mai parlarvi del frammento 1 (1 anche nella numerazione Diano e A 9 in quella Colli), perché è insolitamente lungo e maledettamente complesso; si può dire che in esso sta racchiuso un riassunto di quasi tutti i temi salienti di Eraclito.
Su questo brano Heidegger ci ricama all’inverosimile, forzandolo oltre ogni dire, ma basta così, mi rimbocco le maniche e provo a tradurvelo più alla lettera possibile, appoggiandomi, ma non in toto, alla versione di uno studioso francese, che ancora non vi ho presentato, ma che, vi assicuro, sa il fatto suo, ossia Jean Bollack (1923-2012):
Gli uomini sono sempre ignari di questo discorso (lógos), sia prima di averlo ascoltato, sia dopo averlo ascoltato per la prima volta. Dato che tutte le cose nascono e divengono secondo questo lógos, essi sembrano ignorare ciò che praticano, parole e azioni, quali io stesso sviluppo e racconto, dividendo ciascuna cosa secondo la sua natura e mostrando come è fatta. Ma gli altri uomini ignorano quello che fanno da svegli così come non ricordano quello che fanno dormendo.
Sì, lo so: è complicatissimo, ma non disperate. Per fortuna c’è CR (pp. 443-444, 500-503) che ci soccorre e che, con molta calma, prende in mano la questione, chiarendoci che, in questa requisitoria contro quelli che noi chiamiamo, solo per intenderci, i “non-filosofi”, si scoprono, innanzi tutto, due accuse.
La prima è che il lógos esiste e che tutte le cose accadono secondo il lógos, ma gli uomini non lo sanno mai riconoscere nella loro esperienza, cosicché la loro esperienza è inutile.
La seconda è una violenta protesta in prima persona, che così suona: “io mi prendo la briga di insegnare in che cosa consista il lógos, ma gli uomini non comprendono la mia lezione”.
Sono, quindi, contemporaneamente in gioco l’esperienza e l’insegnamento: entrambi fallimentari.
Inoltre, non vi sarà sfuggita l’espressione: “gli altri uomini” in cui Eraclito si separa ancor più nettamente da tutti. Inizialmente si dichiarava deluso da coloro cui lui aveva tentato di insegnare invano in che consista il lógos e, infine, prende le distanze anche da quelli cui non ha insegnato niente e che non sono poi così diversi da chi ha udito – e senza farne tesoro – il suo discorso.
Perché “gli uomini” sono comunque “sempre ignari”.
Sottolineo “sempre”!
Giunti a questo punto, lasciate da parte per il momento il lógos e l’immagine del sonno e della veglia, di cui, vi prometto, vi parlerò con calma <§ 15bis>; l’importante è che abbiate capito sin qui il messaggio, potremmo dire non solo stolz di Eraclito, ma anche assai accorato.
Ecco, allora, dopo il fallimento, un altro grido di Eraclito, che pure non demorde:
Non ascoltando me, ma il lógos è saggio riconoscere che tutte le cose sono una (50.6).
Questo sta a significare che gli “allievi”, quelli intelligenti – che intuiamo, sono rarissimi – devono imparare a riconoscere il lógos non perché glielo ha insegnato un maestro (lui, Eraclito, che generalmente nessuno ascolta e nessuno capisce), ma perché, grazie, al lógos ci sono arrivati da soli.
Ma, se capiscono tutto ciò da soli, cessano ipso facto di essere allievi!
E ancora: siamo sicuri che esistano uomini siffatti?
(Ricordatevi quel: “sempre ignari”!).
Non so che rispondervi: se Eraclito lo pensasse o se, in qualche momento di sconforto, se lo augurasse soltanto, lo sperasse, pur sapendo che era impossibile.
Chissà?!
Note
Premessa. Per il mia ultima incursione omerica cliccate: Le Sirene e i Lotofagi son forse parenti?
1.Eraclito, I frammenti e le testimonianze, testo critico e traduzione di Carlo Diano, commento di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1980.
Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980.
Clémence Ramnoux, Héraclite ou l’homme entre les choses et les mots, Paris, Les Belles Lettres, 1968 (precedente ed. 1959). Anni fa e anche durante la prima parte del 2020, studiai su questa ed. ma nel frattempo, erano usciti due corposissimi volumi, che racchiudono quasi tutti gli scritti di CR (Oeuvres, tome I, tome II, Présentation de Rossella Saetta Cottone, édition revue et corrigée par Alexandre Marcinkowski, Paris, Les Belles Lettres, 2020), che poi mi procurai, e da cui citerò direttamente nel corso di questo mio scritto; il saggio su Eraclito che ci interessa è racchiuso nelle pp. 179-617, del tomo I.
3. Martin Heidegger, Introduzione alla Metafisica, trad. it. di Giuseppe Masi, Presentazione di Gianni Vattimo, Milano, Mursia, 1968, cfr. ad es. pp. 114-118 (lezioni del 1935, ed. tedesca 1966).
Secondo Heidegger, in alethéia fondamentale sarebbe l’alfa privativo che precede il verbo lantháno: “nascondere” (ma anche “dimenticare”), per cui la “verità” sarebbe “non-nascondimento”. Mah! I Greci amavano parecchio trastullarsi con etimologie, talora fondate e talora fantasiste, ebbene, ci credereste che, in anni e anni che bazzico testi greci d’ogni tipo e di più epoche, mai ho trovato né questa etimologia, né una riflessione sulla non-latenza?
Pierre Hadot, Le voile d’Isis. Essai sur l’histoire de l’idée de Nature, Gallimard, Paris, 2004, pp. 25-27 (ne esiste anche una trad. it. di Davide Tarizzo: Il velo di Iside, Torino, Einaudi, 2006).
4. La Nuit et les enfants de Nuit dans la tradition grecque sta ora racchiuso nel tomo, I, delle Oeuvres cit. di CR, pp. 3-177; mentre Pourquoi les présocratiques? (che corrisponde ad una conferenza tenuta a Paris nel gennaio 1966, presso il Collège de Philosophie) si trova nel tomo II, pp. 15-34.
Friedrich Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. III, tomo II, ed. it. condotta sul testo critico stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, versione di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 1973, pp. 263-351; Ne Il dramma musicale greco (nel medesimo vol. e tomo, pp. 25-45) si parla di “gioco degli scacchi teatrale”, quale critica ad Euripide (p. 35).
Tale posizione “irrazionalistica” dell’arte del giovane Nietzsche viene poi rivista in seguito: cfr. Umano troppo umano, I, ed. Colli-Montinari cit. vol. VI tomo II, versioni di Sossio Giammetta e Mazzino Montinari, af. 163, dove si parla esplicitamente di esercitarsi nella scrittura e, in generale, emerge una visione decisamente tattica del fare arte.
6. Sul fr. 56 (quello in cui dei fanciulli propongono un indovinello sui pidocchi, che Omero non sa risolvere: “Quello che vediamo e prendiamo lo lasciamo, quello che non vediamo né prendiamo lo portiamo”, trad. di Diano, fr. 83) cfr. ad es. Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi, 1975, pp. 61-63.
Polymathíe (dialetto ionico, in cui s’esprimeva Eraclito) o polymathía (in dialetto attico) significa: “imparare molte cose” da polý–mantháno (“imparare”); ossia uno studio che può sconfinare nella vuota erudizione.
7. Luciano De Crescenzo, Panta rei (tutto scorre), Milano, Mondadori, 1994.
8. Quasi tutti gli interpreti, quando hanno a che fare con Eraclito ripetono a pappagallo: “divenire! divenire!”, che funziona come una sorta di micro-riassuntino rassicurante del suo pensiero. Ci casca anche Nietzsche che parla di “divenire” proprio a proposito dell’immagine del fiume (FETG, § 5), senza però mettere a fuoco questa nozione nel Nostro. Lasciamo perdere le acrobazie di Heidegger (IM, pp. 130-140; ad es., sono sommamente arbitrarie le sue rese dei frr. 1 e 2, p. 136) per conciliare Eraclito con Parmenide, il quale viene dopo il Nostro, per cui è scorretto interpretare Eraclito alla luce di un pensatore che gli è completamente estraneo. Ed Eraclito – scusate se insisto – nulla ha a che fare con Parmenide, sia per motivi cronologici sia, e soprattutto, per motivi teoretici perché in lui non vi è nessuna ontologia: nessuna tematizzazione dell’Essere (CR, p. 453). Ma cosa troviamo in greco quando andiamo in cerca del “divenire” nei Frammenti di Eraclito? Troviamo un verbo di uso assai comune (gígnomai) che, come succede anche altrove, può assumere molteplici significati.
Vorrei innanzi tutto ricordare una clamorosa occorrenza, fra tante altre, di gígnomai nei poemi omerici: un episodio di grande effetto, in cui tale verbo sta a designare tutte le varie metamorfosi cui ricorre il Vecchio del Mare per sfuggire a Menelao (Odissea, IV, 455-458). Quest’ultimo, tornando da Troia, non riesce a salpare dalla costa d’Egitto, a causa di venti avversi e il Vecchio (alias Proteo) è l’unico che gli possa suggerire come trarsi d’impaccio, dato che è una divinità marina “verace” o, meglio, che “coglie nel segno” (nemertés… e anche qui urgerebbe un bel ripensamento sulla presunta centralità di alétheia, interpretata, per giunta, come non-latenza…). Per costringerlo a parlare, Menelao e i suoi compagni tengono ben stretto il Vecchio mentre costui si trasforma divenendo (gígnomai, v. 458): leone, serpente, pantera, immenso cinghiale, liquida acqua e infine albero ad alto fogliame, solo, alla fine, cede stremato e si decide a fornire un consiglio efficace e a rivelare, tra l’altro, dove si trova prigioniero Ulisse. Al che, vien da domandarci se questa potente carica metamorfica sia rinvenibile anche in Eraclito. Ebbene, nel corpus dei Frammenti troviamo gígnomai quindici volte, così rappresentate: tre volte sta a significare: “accadere” (79, 80, 110), tre “nascere” (20: bis nel medesimo fr. e 39; da gígnomai deriva génesis: “nascita”), una “trovarsi”, “esserci” (69), tre è analogo ad “essere” (56, 63, 75), una in cui esprime un “diventare” (“piacere delle anime è diventare umide”, 77), tre una trasformazione (7, 31, 36, dove troviamo passaggi tra vari elementi, tipo l’acqua, la terra, il fuoco e il fumo). Infine, il fr. 1 costituisce un caso a parte dato che, a mio modesto avviso, gígnomai colà significa contemporaneamente sia “nascere” che “divenire”.
Stop! Spero che questo piccolo, e massacrante, excursus vi sia servito per vedere come la contrapposizione tra “essere” e “divenire” sia inesistente nel Nostro e come in generale, già solo a livello lessicale, si riveli discutibile e, alla fin fine, impraticabile.
9. Per l’affermazione dell’io in Saffo e Alceo, rimando al bel saggio di Bruno Snell: Il primo rivelarsi dell’individualità nella lirica greca, in B. S., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. di Vera degli Alberti e Anna Solmi Marietti, Torino, Einaudi, 1963 (ed. or. 1946), pp. 88-119.
Jean Bollack, Il “logos” eracliteo, in J. B., La Grecia di nessuno, trad. it. a cura di Rossella Saetta Cottone, Palermo, Sellerio, 2007 (ed. or. 1997), pp. 202-227 (p. 203).