16. Chi gioca sulla scacchiera?
Ora che abbiamo visto l’immagine del gioco sulla scacchiera evocare il diuturno passaggio tra la veglia e il sonno, e viceversa, è tempo che ci domandiamo: chi sta maneggiando i pezzi sul tavoliere e chi sono i due contendenti in questa partita?
Chiariamo subito che il giocatore è uno solo, quasi stesse facendo una sorta di solitario con le pedine.
Giunto è, perciò, il tempo in cui dobbiamo affrontare di petto il misteriosissimo fr. 52, che, appunto, il tempo fa entrare in gioco.
Ma quale tempo?
Ecco come avevo tradotto, provvisoriamente, questo piccolo testo:
Il corso del tempo (aión) è un bimbo che gioca con i pezzi di una scacchiera: il regno di un bimbo.
Diano (48) traduce aión: “tempo” e Colli (A 18): “vita.”
Chi dei due ha ragione? Tutti e due, ma solo in parte.
Urge, perciò, una ricognizione su questo termine – che in Eraclito compare questa sola volta – in modo da capire cosa ha significato aión prima del Nostro e facendo intravedere cosa vorrà dire dopo.
Per fare questa breve scorribanda m’appoggio ad un vecchio, ma ancor oggi illuminante, saggio di Enzo Degani (1934-2000), che di Diano fu allievo e che a questo argomento dedicò la sua tesi di laurea, pubblicata in seguito: Aión da Omero ad Aristotele (1961).
Cominciamo dai poemi omerici, dove aión viene ad essere un equivalente di psykhé. Tra i tanti passi che potrei citare, scelgo una scena del libro nono dell’Odissea (v. 523), laddove Ulisse, che si è imbarcato sfuggendo coi compagni superstiti a Polifemo, provoca il ciclope dicendogli che si rammarica di non averlo potuto privare della vita (aión) e del respiro vitale (psykhé), spedendolo nell’Ade. Generalmente, nei poemi omerici, aión non implica nessuna durata, ma, al valore atemporale di aión, che generalmente in “Omero” sta a significare la “forza vitale”, vi possono essere, però, delle eccezioni, che peraltro sono rare: ad esempio, nel quarto libro dell’Iliade (v. 478), si parla di un giovane guerriero troiano ucciso da Aiace Telamonio e si sottolinea che il suo aión fu breve. Inoltre, in “Omero” è già presente l’avverbio che si lega ad aión ossia aeí che significa “sempre”, e che già prelude al significato, allora futuribile, di “eternità”.
Degani (pp. 29-43) fa poi una dottissima ricognizione sulle origini indoiraniche di aión. Ve la risparmio, ma non posso tacere che il grande linguista Emile Benveniste (1902-1976) sostiene che vi sia un legame tra la radice indoeuropea *yu (da cui aión deriva) e il latino iuvenis. La “forza vitale”, secondo Benveniste, si legherebbe, perciò, alla giovinezza. E questo ha una certa importanza per noi che tentiamo di comprendere il fr. 52, dove troviamo un paîs, ossia un “fanciullo”, che gioca.
Nelle attestazioni di aión prima di Eraclito, c’imbattiamo in un verso della Teogonia (v. 609) di Esiodo in cui aión sta ad indicare “il corso della vita” e, dunque, appare indubitabile che abbia ormai acquisito un senso di durata.
In seguito, aión diviene analogo a bíos (vita), solo che, rispetto a quest’ultimo vocabolo, conserva un’aura più preziosa e più poetica. Si fissa, inoltre, il suo significato di “durata di un’esistenza”. Lo si vede, ad esempio, in Simonide di Ceo (556-468 a. C. ossia un poeta contemporaneo ad Eraclito), laddove si lamenta che all’uomo tocchi un aión “breve” (fr. 9 Diehl).
Sorvolo su Pindaro, anche se dice cose molto interessanti sul nesso tra aión e khrónos, perché questo poeta è di un po’ posteriore (518-438 a. C.) al Nostro (550-480 a. C.) e, quindi, non è facile che lo abbia potuto influenzare; tuttavia Degani legge il fr. 52 alla luce di Pindaro.
Sono, invece, costretta a fare un breve accenno al Timeo (37 c – 38 b) di Platone, perché è proprio in questo dialogo che si fissa per sempre il rapporto tra aión e khrónos, che là rappresentano, rispettivamente, l’eternità e il tempo. Inoltre, non posso non parlare del Timeo, perché, peccando come sempre di anacronismo, troppo spesso il fr. 52 vien letto alla luce proprio di questo testo.
In breve, il Demiurgo platonico, che non è un Creatore, ma è un Artigiano divino che plasma qualcosa di già preesistente, guarda a quei modelli ideali che sono le Idee. Ora, le Idee sono dei “viventi eterni” ed immobili e il Demiurgo fabbrica un’immagine che non riesce a riprodurre perfettamente l’originale, sicché fa un’eikón (ovvero un’immagine il più possibile fedele al modello) mobile dell’eternità (aión) e questa è, appunto, il tempo come khrónos. Un tempo, quest’ultimo, legato al molteplice, agli astri, ai numeri, alle stagioni, ai giorni, agli anni.
Ebbene, che l’eternità sia extra-temporale e che il kósmos sia stato fatto assieme al tempo resterà un classico per tutti quelli che si ispireranno a Platone o alle filosofie neoplatoniche, che da lui derivano: si pensi ad Agostino (Confessioni, XI, 3-14), ma basta così!
Annota, tuttavia, Degani (pp. 90-91) che, nella lingua “non-filosofica”, aión presenta fino ad autori molto tardi un’ambiguità: può significare “eternità”, ma può conservare anche il senso originario di “vita”, “durata della vita”.
Torniamo, ora, indietro: ossia all’analisi che Degani (pp. 73-76) fa del fr. 52. Mi ha parecchio confortata leggere frasi in cui tale illustre grecista giudica “un’impresa disperata, se non impossibile” interpretare in maniera univoca questo frammento, perché rimane sempre il dubbio se si alluda ad un tempo come “vita nella varietà delle sue vicende” oppure all’ “eternità”. E la questione viene lasciata in sospeso o, meglio, la si risolve accogliendo ambo le possibili interpretazioni. Per Degani, insomma, aión è sia un tempo umano, sia “contemporaneamente” un tempo cosmico.
A questo punto, mi son vista costretta a ritradurre il fr. 52, aggiungendo questa piccola, ma non irrilevante, modifica:
Tutto il corso del tempo (aión) è un bimbo che gioca con i pezzi di una scacchiera: il regno di un bimbo.
Infatti, non sono rimasta insensibile ai dubbi avanzati da Degani e ho preferito lasciare aperto questo spiraglio. Tanto più che, ancor prima di avere letto pagine su pagine di commento a questo dannato frammento, di mio, avevo già optato per un tempo cosmico, nel quale può benissimo trovarsi inscritto anche il tempo di ogni singola esistenza umana. Tenendo presente, però, che Eraclito non ha la visione dualistica di Platone. Ossia per lui non vi è un mondo delle Idee trascendente, e un mondo sensibile, che è immagine imperfetta del primo. Ma più mondi su cui regna il divino.
In questo caso, un aión su cui domina un divino fanciullo.
A questo punto sapete cosa vi propongo? Una piccolissima pausa. Una cosa che forse può suscitare la vostra diffidenza, perché non tutti masticate il greco antico, ma non temete: vi sosterrò. Insomma, scriverò il testo, ovviamente traslitterato, nell’originale, visto che è brevissimo e la traduzione l’avete sotto il naso. Ecco la sentenza in greco affinché voi la possiate leggere ad alta voce – perché sempre così andrebbero letti e studiati i testi greci, che conservano, specie i più arcaici, un incancellabile legame con l’oralità – e vi possiate accorgere della bella sonorità poetica di questo testo mirabile:
aión paîs esti paízon peusseúon: paidòs he basileíe
Ci avete provato? Anche se di greco non capite un’acca, siete in grado lo stesso di percepire le allitterazioni basate sul ripetersi ben quattro volte del suono “p” e per tre volte della sillaba “pai”. Vi è poi – e qui intervengo in vostro soccorso – un gioco di parole intraducibile, tra il sostantivo “bambino” (paîs) e il verbo “giocare” (paízo).
Osserviamo, ora, più da vicino questo gioco sulla scacchiera. Vari paragrafi fa <§ 4> vi dicevo che non ha senso alcuno parlare di “castelli di sabbia”, come fa Nietzsche, e ora lo confermo con ancora più forza.
Sorge, però, un ulteriore problema: purtroppo non sappiamo moltissimo di questo antico gioco e c’è il dubbio che non ci fossero solo i pezzi sulla scacchiera ma che vi interagissero anche dei dadi (CR, p. 229), il che renderebbe il gioco più casuale.
Bene, io ho presente, invece, un vaso dell’epoca di Eraclito dove son dipinti Achille e Aiace che giocano su di una specie di tavolino, stando seduti l’uno di fronte all’altro, e di dadi non se ne vedono. E poi abbiamo un frammento, che già abbiamo esaminato: il fr. 88, dove i pezzi vengono spostati sul tavoliere <§ 15bis>. Il che lascia supporre un gioco molto premeditato, piuttosto che uno affidato al caso. E anche lì non si parla di dadi.
Del mio stesso parere è anche Giuseppe Serra (Commento, a Diano, pp. 152-153), che esclude i dadi, e vede in questo giocare: “abilità ed intelligenza”. E, quindi, ritiene che tale bimbo non giochi affatto senza sapere quello che fa, come alcuni hanno inteso, dato che è, casomai, l’uomo ad essere un bimbo rispetto al dio. E proprio questo Eraclito afferma nel fr. 79. Colà si dice che l’uomo non è un paîs, bensì un “infante sprovveduto (népios)”, se raffrontato al divino.
Nel fr. 52 abbiamo, invece, “un tempo che comprende ogni tempo (aión)”, che assume le sembianze di un fanciullo divino. Ma, daccapo, perché un paîs? Perché questo divino fanciullo gioca un gioco che lui solo conosce e che può benissimo recare dei dolori e del “male” agli umani ma lui – e qui, invece, dò ragione a Nietzsche (FETG, § 7) – gioca “in piena innocenza”, ossia fuori da ogni considerazione morale spicciola, visto che ha una prospettiva incommensurabilmente più ampia degli umani.
Rileggiamo, perciò, come conclusione a questa scorribanda sul tempo cosmico, il fr. 102, che ora siamo in grado di comprendere ancor meglio: Mentre per il dio tutte le cose sono belle e buone, gli uomini, invece, alcune le reputano giuste e altre ingiuste.
17. Ma c’è speranza?
Quante volte, leggendo e rileggendo Eraclito, si è preda dello scoramento e si è vinti da una voglia irresistibile di piantare in asso ogni ricerca e di dedicarci a cose più futili e leggere? Insomma, di mandare a farsi benedire “la filosofia e chi l’ha inventata”… che poi, a guardar bene, chi l’ha inventata è sempre Lui…
Innumerevoli volte ne siamo tentati, ma l’Oscuro, anche se abbiamo scaraventato la sua raccolta di Frammenti in un angolo è sempre lì, che ci aspetta e ci sorride sornione e beffardo, sì beffardo… perché lui aveva previsto anche questa nostra débâcle.
No, non sto delirando, il fatto è che non credevo ai miei occhi quando mi son imbattuta in una sentenza (18) che avevo trascurato e che, anche questa volta, senza l’aiuto di CR avrei continuato a leggere distrattamente.
Vi dò per prima la traduzione di Colli (A 63):
Chi non spera l’insperabile non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e ad esso non porta nessuna strada.
Leggendo questa versione non si scopre granché, infatti sembra che chi spera sia un soggetto non meglio identificato, inoltre, non è subito chiaro a chi si riferisca quel “chiuso”.
Va un pochino meglio se si ricorre alla traduzione di Diano (65):
Se non spera non troverà l’insperato: non v’è ricerca che vi conduca né via.
Perché un pregio in più, in quest’ultimo caso, c’è in quel “se”, che troviamo nell’originale e che esprime un’eventualità. Qui sembra che vi sia un soggetto che cerca e che fallisce. Ma le cose non stanno affatto così, tanto per cominciare dal punto di vista grammaticale. Ed, appoggiandomi a CR (p. 609), vi propongo la mia traduzione letterale:
Se non viene sperata la cosa non sperata non sarà scoperta, essendo non scopribile e senza via d’accesso.
Il soggetto non è, dunque, un ricercatore umano, bensì un’entità al neutro: “la cosa non sperata”, che va sperata per essere trovata – questa è la mia audace interpretazione – sennò ad essa non si giungerà mai, visto che, se non sperata, è á–poron ovvero senza un cammino (póros) che vi ci porti. Il ricercatore umano, perciò, esiste ma, potremmo dire, solo in seconda istanza.
E le sorprese non finiscono qui. Il verbo in questione (élpomai) non esprime solo uno “sperare”, ma anche un “attendere”.
Per la cronaca, in greco, “speranza” si dice: elpís.
Tra lingue moderne, mi viene in mente solo lo spagnolo, dove espero significa: “aspettare” prima ancora che “sperare”.
Ecco, allora, come sarebbe più corretto presentare la traduzione rispettando questo doppio significato:
Se non viene sperata (attesa) la cosa non sperata (non attesa) non sarà scoperta, essendo non scopribile e senza via d’accesso.
Mai disperare perché ci attende l’inatteso! Questo è, secondo la mia personale interpretazione, il messaggio di Eraclito, specie a noi, scoraggiati suoi interpreti. “Forse un giorno vi sembrerò meno oscuro”, pare suggerirci, dandoci una pacca su di una spalla.
C’è un passo di Nietzsche che mi ha sempre lasciato a bocca aperta e che sembra andare in questa medesima direzione. Ed è quando afferma categorico: “Non c’è mai stato un uomo che abbia scritto in modo più chiaro e luminoso. Senza dubbio in modo assai conciso, e quindi oscuro per i velocisti della lettura” (FETG, § 7). D’accordo, bisogna leggere Eraclito lentamente, ma da questo a dire che è chiaro quello che scrive mi sembra un’esagerazione, caro il mio Nietzsche!
Ma procediamo e, visto che, almeno in questo paragrafo, voglio continuare a tenere alto il mio e il vostro morale, vi propongo un altro detto (6), che di solito vien tradotto così:
Il sole è nuovo (néos) ogni giorno.
Il brano è tratto dai Metereologici (355 a 13-14) di Aristotele. Cosa volete che vi dica? A me questa traduzione lasciava insoddisfatta. Avevo un bel leggere commenti che citavano naturalisti greci, dove si sosteneva, ad esempio, che il sole e gli astri si accendono e si spengono ogni giorno e ogni notte.
Tuttavia, c’era qualcosa che mi non mi convinceva.
Poi cominciai a guardare con più attenzione l’aggettivo che s’accompagnava ad hélios (sole) e ci trovai néos e lì cominciai a vedere la luce. Perché dovete sapere che néos ha in greco due significati: può voler dire “nuovo”, ma anche “giovane”. Mi precipitai, allora, sul glossario dei Frammenti – perché è anche così che lavoro – e scoprii che, l’unica volta che c’era un altro néos nel corpus eracliteo, era nel fr. 88 <§ 15.bis>, laddove si dice: “La stessa cosa risiede in noi: il vivo e il morto, il destato e il dormiente, il giovane e il vecchio etc.” Ve lo ricordate, spero. Beh, sicuramente, in quel caso, non possiamo dubitare che si tratti di “giovane” e non di “nuovo”.
Dovete sapere che, quando risolsi di tradurre: “Il sole è giovane (néos) ogni giorno”, mi trovavo momentaneamente isolata nel cuore degli Appennini, con internet piuttosto intermittente e con sottomano solo la traduzione di Diano (che traduce “nuovo”), ma non quella di Colli. Non potete immaginare il mio giubilo quando, una volta rientrata a Padova, precipitandomi sul terzo volume de La sapienza greca, scoprii che Colli (A 89) traduceva esattamente come me!
(Mi si rimprovera spesso di “fare troppa autobiografia” e di “raccontare i fatti miei”, che andrebbero evitati perché “non interessano a nessuno”: siete fuori strada! Quello che vi ho appena narrato non è autobiografia egotista è solo una modesta testimonianza di un Work in Progress su Eraclito, e dei momenti di pura esaltazione che il Nostro può procurare. Tutto materiale che gli algidi filosofi, saggisti di professione, scartano dai loro scritti, ammesso e non concesso che provino mai simili sensazioni e che siano davvero appassionati alle loro ricerche…).
Vi chiederete, ora, perché ci tenessi tanto a trovare almeno una conferma per la mia pensata del “sole giovane”. Ve lo spiego: la colpa è del fr. 52, ovvero di quel aión fanciullo che è il tempo tutto, che mai invecchia, che conserva per sempre intatta la sua giovane vigoria… – vi ricordate di Emile Benveniste, citato da Degani, che legava aión alla giovinezza <§ 16>?
Ma vi è un altro motivo più lirico che mi fa optare per questo sole giovincello: Eraclito sembra rispondere ad un poeta, come lui della Ionia. Si tratta del grande Mimnermo (VII-VI sec. a. C.) di Colofone (città non lontanissima da Efeso), poeta che canta la fuggevole giovinezza e depreca l’odiosa vecchiaia. Sarà che son fissata, sarà una pura coincidenza, ma Mimnermo (fr. 10 Diehl) ci fa vedere un Sole affaticato e dolente, i cui cavalli non riescono a ripigliare fiato. Vi consiglio di leggere questi versi perché, tra l’altro, dipingono mirabilmente il balenio della rosata Eós (Aurora), che scala il cielo lasciandosi alle spalle Oceano e scoprirete che il peso di un’esistenza priva del vigore della giovinezza, che è tipica degli umani, sembra aver contagiato anche il divino Hélios.
Né va dimenticata un’altra mirabile poesia sempre di Mimnermo (fr. 4 West) che allude al mito di Titono. Era costui uno splendido giovinetto troiano di stirpe regale, di lui s’innamorò Aurora che chiese a Zeus per il suo diletto il dono dell’immortalità, dimenticandosi di domandare anche quello dell’eterna giovinezza. E così il bel giovine non solo invecchiò, ma continuò a divenire vieppiù decrepito e, di conseguenza, sempre più inviso alla dea che l’aveva amato. Al che, Mimnermo ne conclude che la vecchiaia è un male più penoso e raggelante della stessa morte.
Leggendo assieme queste due liriche, l’una dopo l’altra, comprendiamo ancor meglio il contrasto tra Aurora, eternamente fresca di giovinezza, e un Sole sfatto. Ecco perché m’è tanto piaciuto tradurre il fr. 6 di Eraclito come un inno alla giovinezza e insieme come una sorta di controcanto a Mimnermo, poeta che il Nostro non poteva non conoscere.
18. E se ci perdiamo?
Dopo che ci siamo tirati su di morale, non illudiamoci che, d’ora in poi, siano tutte rose e fiori nel cercare d’interpretare Eraclito. Eh sì perché proprio CR, che aveva attirato la nostra attenzione sul fr. 18 e che aveva alimentato, suo malgrado, la nostra speranza nell’insperato, la nostra attesa dell’inatteso, quando sta tirando le somme del suo studio di tutta una vita, giusto nella penultima pagina (p. 616), ci dà una tremenda mazzata. Sentite qua: CR ci dice che nemmeno Eraclito ha scoperto la cosa insperata-inattesa o, se l’ha scoperta, lo ha fatto scoprendola come non-scopribile. Tuttavia, anche se non l’ha scoperta, non ha mai smesso di parlarne.
Accidenti, che consolazione!
Ma non perdiamoci d’animo, tanto più che ora dobbiamo fare i conti con due frammenti che mi hanno fatto disperare. Ve li dò direttamente nella traduzione di Diano, su cui non ho (quasi) nulla da ridire:
La via (hodós) in su e la via in giù sono una e la medesima (60.31).
La via (hodós) per la vite è dritta e curva, ed è la medesima e una (59.29).
Partiamo dal secondo frammento. Non vi posso raccontare tutte le dispute che si scatenarono, e si scatenano, tra i dotti su quella famigerata “vite” (gnapheîon) – che non è affatto una vite in senso stretto, che in greco si dice hélix. Ad esempio, taluni, Colli (A 28) compreso, leggono graphéon ossia “dei pittori”; però, a me questa soluzione, seppur seducente, non convince per nulla.
Si tratta, invece, di un attrezzo antichissimo, di nome “gualchiera”.
La gualchiera?!?!
Non sapete cosa diavolo sia, eh?
Non lo sapevo manco io prima di affrontare questo stramaledetto frammento e ho passato giornate su Google a vedere un tutorial dietro l’altro per cercare di capirlo. Se vi va, dateci un’occhiata anche voi e divertitevi!
In poche parole, è una macchina, in genere a rulli dentati, in cui s’introduce la lana per cardarla, ossia per far quello che fino, poco tempo fa, facevano i materassai… ah sì, siete troppo giovani per ricordarvene, voi che ormai, come me, dormite su materassi a molle o di gommapiuma…
La stessa operazione si faceva, anticamente e anche in tempi più recenti, per togliere ogni impurità dai fiocchi della lana, appena tosata dalle pecore (o dalle capre), altrimenti non la si sarebbe potuta filare e, in seguito, una volta ottenuto il filo, tessere. Cominciate a immaginare qualcosa? Spero di sì, altrimenti, dovete proprio ricorrere ai video specifici.
Osserviamo meglio il frammento e domandiamoci chi è il vero protagonista di questo detto, ovvero domandiamoci chi è che compie il cammino? Beh, è la “vite” intesa come “gualchiera”… ecco perché ho preferito tradurre: “per la vite” e non “della vite”, come fa Diano – visto che grammaticalmente abbiamo un dativo.
E che cosa combina questo astruso macchinario? Per fortuna ce lo spiega egregiamente lo stesso teologo (Ippolito, III sec. d. C., La confutazione di tutte le eresie, 9, 10, 4) che ci ha tramandato questa sentenza: “Per la gualchiera la via dritta e storta (la rotazione nello strumento chiamato vite, è dritta e storta perché gira andando in su e insieme in tondo) è unica, dice Eraclito, e la stessa”.
E adesso, che avete preso dimestichezza con la cardatura, potete comprendere facilmente anche il primo frammento, che ci è riportato sempre da Ippolito.
Che fatica, ragazzi!
Al che, immaginatevi quanto mi dia noia leggere tutti i deliri di chi vuole, per forza, interpretare questi frammenti come uno scendere verso gli Inferi e un salire verso la luce, per poi dichiarare che Eraclito sta, alla fin fine, parlando dell’Uno, dove comunque si converge.
E via con la solita coincidentia oppositorum come collaudato passe-partout!
Se a voi sta bene così, accomodatevi! Non ve lo vieto, di certo.
Ben altre sono, invece, le mie preoccupazioni. Perché siamo di fronte ad un ingranaggio, dove quel meccanico ruotare ha tutta l’aria di un percorso obbligato e ripetitivo.
Siamo sicuri che questa solfa piacesse ad Eraclito?
Io di dubbi ne ho a bizzeffe. A meno che, questo avvitarsi, non sia l’immagine non certo dei pochi che comunicano con il lógos, ma casomai di tutti quelli che del lógos non fanno nessun conto.
Torniamo, ora, al fr. 18 e concentriamoci sul “non scopribile” che, se condividessimo il pessimismo di tutti gli interpreti, esclusa la sottoscritta, resterebbe “senza via d’accesso”.
Ebbene lo scacco, a guardar bene, risulterebbe ancora più radicale di quello che potrebbe sembrare di primo acchito.
Infatti, áporon sta a significarci che non solo non esiste cammino (póros) o scorciatoia (póros) che porti al “non scopribile”, ma che, anche se vi giungessimo, di lì non sapremo poi tornare indietro.
Infatti áporon è un cammino che finisce in un cul de sac, in un vicolo cieco, visto che, una volta là, non si sa più dove e come andare.
Significa perdere il cammino.
L’idea me l’ha data Marco Aurelio, che spesso cita a memoria Eraclito, che lo semplifica, ma che, malgrado tutto, qualche suggerimento ce lo può sempre dare.
Ho, perciò, riletto quel suo lungo pensiero (IV, 46) dove ci riferisce tante sentenze interessanti di Eraclito, tipo che non dobbiamo comportarci come figli dei nostri genitori (74 <§ 6>), oppure che non dobbiamo né agire né parlare come in sonno (73 <15.bis>). Ora, sempre in questo medesimo testo, l’imperatore butta là questa frasetta:
(Ricordati anche di quel detto di Eraclito) c’è chi dimentica dove conduce il cammino (hodós) (71).
Sia Diano (66), sia Colli (A 94) omettono l’introduzione alla sentenza (che ho premesso tra parentesi), tuttavia si tratta di una componente istruttiva, perché ci fa riflettere su come talora ci è stato trasmesso l’Oscuro. Orbene, se si tratta di un pensatore tardo antico (sia esso stoico, epicureo o neoplatonico), vien messa in atto una pratica, in cui si cita una sentenza di un filosofo, in genere molto anteriore, affinché sia di monito e aiuti a perseverare nella “conversione filosofica”. Lo spiega egregiamente Pierre Hadot in un suo libro, giustamente famoso: Esercizi spirituali e filosofia antica.
Una volta che vi ho doverosamente illustrato il contesto, resta da capire il messaggio eracliteo. E qui sono dolori. I soliti dolori.
Colli, che è assolutamente fissato con una lettura iniziatica del Nostro, afferma che quella della hodós – sì, anche se pochi lo sanno o lo ricordano, è un sostantivo femminile! – è un’immagine orfica: diversa è la strada dell’iniziato da quella presa da chi iniziato non è.
Ve lo dico chiaro e tondo: non ho nessuna intenzione di perdermi tra i meandri dell’Orfismo: se volete farvene un’idea, leggetevi, ad esempio, la sezione Orfeo, nel primo volume de La sapienza greca, sempre di Colli.
Del resto, potete già indovinare perché sia molto restia a credere che Eraclito fosse imbevuto di Orfismo. Vi ricordate, spero, come fosse critico nei confronti della religione tradizionale e sprezzante nei riguardi delle sette <§ 6>?
Perciò, mi sono molto rinfrancata leggendo un’annotazione di CR (p. 602) – la quale, peraltro, dell’Orfismo ha una conoscenza con i fiocchi – laddove nega che Eraclito fosse un orfico. CR giunge addirittura a dubitare che l’Orfismo sia mai esistito come religione e financo come setta e si spinge fino a rovesciare il problema. Insomma, propone di non domandarci più se Eraclito fosse orfico ma, casomai, se gli orfici fossero eraclitei. E, allora, facciamola finita con tutta questa fumisteria iniziatica! Poiché quello che ci preme è intuire, piuttosto, che il cammino si può perdere o, meglio, che non si può non perdere.
Concludiamo questa nostra accidentata passeggiata sul tema dell’hodós, ritornando ad un frammento che abbiamo incontrato più volte, e che sempre riemerge in maniera carsica. Il frammento che più di tutti ci chiama in causa perché mette in scena il “tu”: “I confini della psykhé, per quanto tu vada, tu non li potrai trovare, anche se percorressi tutte le strade (hodoí): così esteso è il lógos che essa possiede (45)”. Ecco, allora che non si tratta più di due strade: quella dritta e quella storta, quella in su e quella in giù. Sarò fuori di testa – drogata come sono dall’Oscuro – ma ho maturato il fortissimo sospetto che il Nostro dica che quei due cammini son la medesima cosa semplicemente perché non gli interessano.
Altrimenti non avrebbe concepito il messaggio inscritto nel fr. 45.
Insomma, quei cammini obbligati, quei cammini già tracciati, quelli della “vite” (59), non ci riguardano in quanto “tu”. No, noi abbiamo qui qualcosa di ben più plurale, di ben più ramificato da percorrere: abbiamo un ventaglio di hodoí, al tal punto che, l’áporon in cui possiamo incappare, diviene una sorta di… labirinto.
Solo che ora sappiamo che perdere il cammino non è più uno scacco, ma è il segno che nulla abbiamo a che fare con la gualchiera… e che, nonostante tutto, nonostante il nostro errare senza fine, niente e nessuno ci toglierà mai la ricerca del “non scopribile”, ma nemmeno l’irrompere dell’ insperato-inatteso…
Concludendo: separato è il saggio.
Oramai la nostra avventura volge al termine. Abbiamo assaporato, in maniera più o meno approfondita, senza nessunissima pretesa di essere esaustivi, non pochi frammenti di Eraclito: su 129 ne abbiamo esaminati con cura, spessissimo ritraducendoli, circa 46, mentre a molti altri abbiamo solo fatto cenno. E, visto che non siamo quel divino fanciullo che eternamente gioca sulla scacchiera, ma solo degli umani che dispongono d’un tempo in scadenza, dobbiamo giocoforza prendere commiato.
E spero che, giunti sin qui, abbiate fatto – almeno un poco – conoscenza con l’Oscuro, col suo carattere impervio, così come lo è il suo stile di scrittura, e vi siate un po’ affezionati a lui, anche se non quanto la sottoscritta.
Negli ultimi due paragrafi abbiamo camminato in percorsi labirintici, non trovando alcun passaggio (póros) e abbiamo sperimentato che alla cosa “non-scopribile”, forse, ripeto forse, non v’è accesso. Ebbene, ora siamo pronti ad ascoltare un ultimo, altero, messaggio del Nostro. Per comunicarcelo, lui usa gli stessi accenti disillusi del fr. 1 <§ 9> ma, questa volta, sa dircelo con poche, taglienti, parole:
Di quanti ho udito i lógoi, nessuno arriva fino a questo punto: riconoscere che ciò che è sapiente è separato (khorízo) rispetto a tutte le cose (108).
Avrete notato subito due vistosi motivi: la prima persona singolare che osa dire “io”, non cercando paraventi e diplomatiche controfigure e poi quel categorico “nessuno”, che fa da pendant a “gli uomini sono sempre ignari” e “gli altri uomini” del fr. 1 e, se è possibile, rafforza questa posizione.
Eraclito, insomma, ci fa capire di ritenere i lógoi, che sinora ha ascoltato, discorsi insufficienti perché proferiti – ce lo fa intuire chiaramente – da quanti usurpano il nome di sapienti (129).
Di tutti costoro, può avere udito la viva voce, oppure la fama, oppure può aver letto i loro scritti, perché – non dimentichiamolo mai – la lettura antica avveniva ad alta voce ed era strettamente legata al mondo dell’oralità. Tutte queste tre possibilità stanno racchiuse nel verbo akoúo (“udire”) e possono benissimo, in questo caso, essere con-possibili e con-presenti.
Inoltre, i commentatori legano tali pretesi sapienti al saper troppe cose solo da eruditi (polymathía), cosa che, come abbiamo visto <§ 6>, Eraclito critica con sdegno ed asprezza. Un Eraclito polemico nei confronti di vari “mostri sacri”, di un passato a lui più o meno vicino, e irridente rispetto a certi suoi noti contemporanei.
Osserviamo meglio “quel che è sapiente” su cui vi devo delle spiegazioni. Ebbene, non abbiamo tò sophón ossia “la cosa saggia”, quella che ad esempio, “vuole e non vuole essere detta con nome di Zeus” (32), ma abbiamo semplicemente sophón come accusativo del verbo gignósco: “riconoscere”. Mi spiego: se avessimo “la cosa saggia”, approderemmo direttamente e senza equivoci al piano del “divino”, visto che Eraclito non cancella i nomi degli dèi olimpici, bensì li fa convivere con un suo progetto di sostituirli con nuovi nomi (CR, p. 601). Ovvero coltiva un progetto innovativo che, per capirci, potremmo chiamare il suo novello “pantheon teoretico” (l’espressione è mia), popolato da entità, tipo il Fuoco, il Lógos, la Cosa Unica, la Cosa Saggia, la Cosa non sperata etc.
Orbene, quel sophón senza l’articolo neutro tó ci insinua un dubbio insidioso: Eraclito sta parlando “di ciò che è saggio”, e quindi di qualcosa di divino o, più semplicemente, di “chi è saggio”, ossia di qualcuno che appartiene ad un piano umano, anche se rarissimamente può esser detto “saggio”?
Giorgio Colli (A 17) traduce “la sapienza”, intendendo innanzi tutto, il divino come “trascendente”, la cui “orma” si trova nelle parole del sapiente, il quale si esprime per enigmi (Nascita della filosofia, pp. 68-69). Non sono d’accordo sulla trascendenza, perché i detti di Eraclito, a mio modesto avviso, testimoniano di un modo di vedere “immanente” o, meglio, di una visione in cui questa alternativa ancora non si pone.
Carlo Diano (80) rende pure lui sophón con “sapienza” e Giuseppe Serra fa convergere in tale sapienza sia il divino come Uno, sia l’umano che tale Uno può conoscere: al solito…
Anche CR si pone questo problema e fa coesistere le due possibilità: interpreta quel sophón sia sul registro del divino, sia su quello dell’umano (pp. 439-442), affermando che, se l’uomo è in accordo con il Lógos – che nulla ha a che fare con i lógoi dei pretesi sapienti – in qualche modo accede al divino (p. 566).
Ora, non so voi, ma io sono molto interessata al lato umano di quel sophón che mi piacerebbe leggere solo come accusativo (maschile e non neutro) di sophós, tanto che sarei fortemente tentata di ritradurre: “chi è sapiente è separato rispetto a tutte le cose”. Tuttavia, se fossi così drastica, cancellando ogni ambiguità, farei violenza all’Oscuro, che un suo senso del divino, seppur originalissimo, possedeva. Perciò, non potendo certo negare questo aspetto, soffermiamoci, piuttosto, sul verbo khorízo che marca un “differire”, un “distinguersi” e, letteralmente, un “porre dello spazio (khóra)” tra sé e “tutte le restanti cose”.
E ancora, se sophón si riferisse solo a “ciò che è saggio” nel senso di divino, non farebbe che marcarne l’inacessibilità.
Se, invece, torniamo tra gli umani e tra gli animali, c’imbattiamo – ormai lo sapete – nella pluralità dei mondi, nella pluralità dei regni. E qui non si tratta di scatenare un pólemos, un conflitto, una guerra tra i mondi: lasciamo che essi coesistano, scegliendo noi dove dislocarci.
Perché khorízo è il verbo, del “ritirarsi”, del “farsi da parte”, del solitario che non s’immischia… ma con chi? Beh, non occorre che ve lo ripeta, il Nostro ci consiglia di tenerci lontani dagli hoi polloí e da tutte le cose che a costoro stanno a cuore.
Insomma questa grande, e “aristocratica”, lezione di separatezza ha saputo darci Eraclito e, salutandolo, non possiamo che ringraziarlo.
Note
16. Enzo Degani, Aión da Omero ad Aristotele, Padova, CEDAM, 1961.
Se volete vedere il vaso in cui Achille e Aiace sono impegnati in qualcosa di simile al gioco della dama, digitate su Google la dicitura: Achille e Aiace giocano a dadi. Assurdo perché dadi non se ne vedono! I vasi sono più d’uno, ve ne sono in cui appare, tra i due eroi, Atena che vorrebbe interrompere il gioco e spedirli sul campo di battaglia.
17. Abbiamo anche un altro fr. (27) dove élpomai significa inequivocabilmente “attendere”. Eraclito, forse, colà ci fa intuire di avere idee tutte sue e, guardacaso, non conformi alla tradizione, riguardo a quello che comunemente ci si “aspetta”, per quando saremo morti. Ovviamente, se così fosse, non lo spiega, dice solo che: “le cose che attendono” gli uomini trapassati non sono quelle che loro credono”. Niente castighi? Niente dimore tra i beati? Oppure, non c’è nulla nell’Ade? Chissà?! Insomma un’escatologia che, ammesso che esista, resta misteriosa.
CR (pp. 328-329), invece, legge questo frammento non in chiave escatologica bensì come un invito ad una sorta di áskesis dell’immaginario, grazie alla quale, chi è saggio scarterebbe tutte le finzioni nate dal desiderio o dall’angoscia dei mortali riguardo al post mortem. Insomma su quest’ultima condizione, Eraclito, sempre secondo CR, ci fa capire che non si dovrebbe indulgere a nessuna rappresentazione.
Nietzsche si dichiara chiaramente fautore della lettura lenta auspicando anche uno scrivere “lentamente” (langsam), Prefazione (1886), § 5 a: Aurora, in Opere cit. vol. V, tomo I, trad. it. di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1964 (ed. or. 1881 ).
18. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, trad. it. di Anna Maria Marietti, Torino, Einaudi, 1988 (ed. or. 1987), soprattutto pp. 29-68.
Giorgio Colli, Orfeo, in La sapienza greca, I, Milano, Adelphi, 1977, pp. 117-389.
Non affronto il tema delle tre vie in Parmenide (CR. pp. 459-460), perché, ormai lo sapete, non amo leggere Eraclito facendomi suggestionare dal filosofo dell’Essere.
Non posso qui nemmeno affrontare un problema enorme, che peraltro sarebbe assai interessante: il fatto che Ippolito, ma anche Clemente Alessandrino, nel riportare Eraclito, vi facevano entrare le loro polemiche contro vari esponenti della Gnosi. CR ha analizzato con cura questo aspetto, ogniqualvolta commentava un frammento citato da questi due.
Segnalo brevemente un frammento abbastanza noto di Eraclito (15), che qui non discuto perché troppo controverso. Ebbene, tale fr. si chiude con la sorprendente affermazione che “Ade e Dioniso sono lo stesso”. Secondo me, dal tono generale di tale testo emergerebbe che, per Eraclito, le processioni falliche legate a Dioniso, di cui in tale fr. si parla, hanno dell’insensato. Ne deduco che quella identità finale non è il solito trionfo della coincidentia oppositorum, come i più interpretano, bensì il segnale che né Dioniso, né Ade (cfr. fr. 27) interessano al Nostro. La mia è solo un’ipotesi: leggetela come eventuale conferma che nessuna delle due vie, evocate nei frr. 59 e 60, ha senso per Eraclito.
Concludendo.
Per il tema della lettura silenziosa rimando al mio: L’occhio del silenzio (Encomio della lettura), Padova, Esedra, 1998 (prima ed. Venezia, Arsenale, 1986); ed. fr. L’oeil du silence. Eloge de la lecture, traduit de l’italien par Jean-Paul Manganaro et Camille Dumoulié, avec un dessin et une Présentation de Pierre Klossowski, Lagrasse, Verdier, 1989.
Come vi ho detto fin dall’inizio, mai ho preteso di trattare tutte le tematiche presenti in Eraclito, ad esempio, non ho volutamente parlato della questione della cosiddetta “conoscenza sensibile”: son d’accordo con Colli (NF, p. 65), che ridimensiona la presunta critica di Eraclito a questo proposito.
Ho pure trascurato il tema dell’armonia: lo potrete trovare, assieme ad una riflessione comparativistica, in Giangiorgio Pasqualotto, Il Tao della phýsis: Eraclito e il taoismo, in G.P., Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d’Oriente e d’Occidente, Pratiche, Parma, 1989, pp. 19-47.